Valentina Corrao e Roberto Marra in "The Early Bird". Credits: Teatro Belli

«Che pena, gli uomini», diceva la figlia del dio Indra ne Il sogno di August Strindberg. E in quel sogno-incubo che è The Early Bird- L’uccellino del mattino (il più recente appuntamento con gli spettacoli della rassegna online Trend, Teatro Belli di Roma) una figlia scomparsa (una bambina, Kimberly) è la presenza-assenza insostenibile che informa la decomposizione psicologica dei due genitori. Che pena, quell’uomo e quella donna. Che pena, Jack (Roberto Marra) e Debbie (Valentina Corrao). Borghesi (manager fedifrago e comunque frustrato lui, moglie-madre ora passiva ora aggressiva lei) messi a nudo nella friabilità umana che li (in)definisce prima e dopo la tragedia.

In fondo, il testo di Leo Butler messo in scena da Massimo Di Michele è un’autopsia sul corpo agonizzante della famiglia cosiddetta tradizionale, come nel grande dramma naturalista che fu. Ma qui la partitura è onirica, quasi simbolista se solo ci fosse un vero altrove da evocare. È un incubo del Nulla e nel Nulla, quello di Jack e Debbie, che si agitano nel vano tentativo di recuperare, dal presente e dal passato (anzi, dai passati) l’altra da sé stessi che hanno perduto, che forse sono mai riusciti davvero a comprendere, a proteggere, ad amare.

Il cerchio e gli uomini-bambini

Valentina Corrao e Roberto Marra in The Early Bird Luccellino del mattino. Credits: Teatro Belli/Maria Pia Ballarino

L’impossibilità ad agire, ormai, è anche impossibilità a parlare. Manca sempre un’angosciante parola alla frase di Debbie, sono i vani capricci di un ragazzino violento le urla e le accuse di Jack). Impossibilità a muoversi (nell’anti-alfabeto gestuale di Dario La Feria), a pensare. Ogni presunzione di esistenza autonoma nella percezione del tempo lineare si è dissolta. I due genitori nudi, svuotati e bloccati in un immobile “ora” tornano a singhiozzi tra i frammenti del “prima”, dove però la verità si frantuma nella congerie delle ipotesi e dei punti di vista. Ed entrambi (ri)diventano bambini, si scoprono quella bambina, tra gli anelli di un gioco che li rinchiude in un circolo senza uscita.

Sono i momenti più intensi e rivelatori dello spettacolo, quelli dove il gioco terribile è alla madre-padre e alla figlia che non c’è (più). Dove risultano tanto più efficaci nei rispettivi ruoli i due interpreti ventenni, i loro volti di giovani sofferenti, rinchiusi troppo presto nei ruoli di adulti che non sono né saranno mai davvero. Impossibilitati, Debbie e Jack, nel deserto socio-culturale del consumismo ipermediatico che li ha determinati (la tv, il digitale terrestre, i suoi infiniti ma già vecchi programmi, il notiziario), a gestire i due opposti e fondativi traumi dell’esistenza, la nascita e la perdita. Quella nascita (di Kimberly) che ha segnato dolorosamente il corpo di Debbie, quella perdita (di Kimberly) attorno a cui si spalanca l’abisso di un mondo ostile.

Perché la realtà esiste (ancora), fuori dai labirinti della mente e delle rappresentazioni. Nel mondo spariscono 8 milioni di bambini ogni anno, 22 mila al giorno, uno ogni 7 giorni in Italia, ci avverte in premessa, con atroce precisione, il regista. Ma né Debbie né Jack possono sperare di afferrarla davvero sino in fondo. E ogni ipotesi di assoluzione comune («La pioggia lava via tutto») è comunque inscritta nella geometria del cerchio che resta chiuso: tra l’autobus, la giacca, la sciarpa, l’ombrello, la tv. L’uccellino del mattino, la pena infinita degli uomini-bambini. E intorno, il Nulla.

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Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.