Unorthodox

È il 2012 quando Deborah Feldman, oggi trentaquattrenne, decide di raccontare la sua particolarissima storia in un romanzo autobiografico, Unorthodox. Pochi anni dopo arriva dalla sezione tedesca, e non americana, di Netflix la proposta di trarne una mini-serie originale. Nascono così le quattro omonime puntate, che nella loro durata complessiva di circa quattro ore, costituiscono in realtà quasi un film, poiché è impossibile non guardarle una dopo l’altra.

Unorthodox è la storia di un’anima fuori posto, non propriamente ingabbiata ma di certo sopraffatta da una realtà in cui non riesce del tutto a omologarsi. Il titolo fa riferimento letterale all’ortodossia religiosa degli ebrei chassidici, ma non è una storia su Dio, né sul rifiuto del culto. È una storia di scelte e di sacrifici personali, alla ricerca del proprio posto nel mondo e della propria voce.

In questo senso Unorthodox si potrebbe anche definire il coming-of-age fino a ora più riuscito fra tutti quelli presenti sulla piattaforma digitale. Netflix, infatti, sembra aver puntato molto su questo genere, con prodotti provenienti da diverse culture e diverse fasce di pubblico. Da On My Block a Non ho mai…(da recuperare subito, se non li avete visti) fino al recentissimo Julie and the Phantoms per gli spettatori ancor più piccoli. Unorthodox scava ancora più a fondo, nel conflitto interiore fra radici che non si è in grado di spezzare del tutto e un nuovo mondo in cui rinascere.

Shira Haas in Unorthodox
Shira Haas in Unorthodox – CREDITS: Netflix

Unorthodox, tra finzione e realtà

Deborah Feldman, prima di rivoluzionare la sua vita, viveva a Williamsburg, quartiere di Brooklyn caratterizzato da un’elevata presenza di comunità chassidiche. La Feldman, in particolare, proveniva dalla comunità Satmar, di origine ungherese e presente in larga parte a New York. I Satmar sono ancora diversi dagli chassidici in generale. Vivono nel trauma dell’Olocausto, nel senso che esso ingloba tutta la base identitaria della comunità.

Tutto ciò in cui credono e tutto ciò che fanno è dettato dalla necessità di “ricostruire i sei milioni persi”. È una realtà molto specifica e unica nel suo genere, per questo la produzione compie uno sforzo ulteriore per mantenere la rappresentazione più corretta possibile. Il cast parla fluentemente lo yiddish e tutti i dettagli culturali, ben visibili nei costumi e nelle scenografie, sono supervisionati attentamente.

Tutte le scene ambientate a Williamsburg derivano direttamente dalla vita e dall’esperienza di Deborah Feldman, che partecipa anche al processo di scrittura della serie. Mentre la parte ambientata a Berlino è in un certo senso la storia originale Netflix, mai avvenuta nella realtà ma essenziale per comprendere il processo di mutamento della protagonista dopo la fuga dalla comunità d’origine. Questa scelta è dettata in primo luogo dalla produzione – tedesca, come si è detto – che a New York lavora solo per i sopralluoghi, scegliendo di girare poi tutto in Germania. In secondo luogo è una scelta mirata, per tornare al nucleo del trauma dei Satmar, nel luogo da cui nasce il nazismo, per liberarsene.

La rinascita di Esty

Etsy (Shira Haas) Unorthodox
Etsy (Shira Haas) nella scena al lago, Unorthodox – CREDITS: IMDB.com

C’è una scena madre che descrive esattamente questo: la scena al lago, di fronte alla villa una volta frequentata dai gerarchi nazisti. La gente comune, come ogni estate, frequenta il lago senza nemmeno far troppo caso al pezzo di storia che si staglia davanti ai loro occhi. I berlinesi e i tedeschi hanno già da tempo trovato il modo di superare il loro stesso trauma, dal Terzo Reich fino al Muro. Esty (la protagonista interpretata da un’incredibile Shira Haas) no. Lei è stata cresciuta pensando di dover affogare in quel dolore, motivo per cui, tra gli altri, decide anche di fuggire. Non rinnega mai se stessa o il mondo da cui proviene, semplicemente quel mondo non le ha mai offerto la possibilità di trovare una sua dimensione, un suo equilibrio.

Ecco quindi che, arrivata sulla riva con i ragazzi appena conosciuti a Berlino, la sola vista della villa la fa raggelare. Non riesce a capire come chiunque intorno a lei riesca a comportarsi normalmente, senza provare la stessa rabbia, la stessa sofferenza che quell’edificio le trasmette. Poi, improvvisamente, avviene quasi un’epifania: quella fuga non potrà mai avere senso se continuerà a portare su di sé il peso stesso di un’ideologia che l’ha fatta fuggire.

Allora inizia lentamente a spogliarsi, a togliere la spessa calzamaglia, gli abiti scuri e pesanti che le avvolgono il corpo da quando ha lasciato Brooklyn. Si avvina all’acqua e si immerge, ribattezzandosi alla vita. Quella stessa acqua che nei rituali di purificazione chassidici la teneva prigioniera, adesso le restituisce la libertà. In un solo gesto abbandona la sua vita, lasciandola annegare insieme alla parrucca, simbolo del suo ruolo, del suo status e della sua identità. Non è più moglie, non è più in debito con le aspettative di nessuno. È solo Esty e la sua storia è appena cominciata.

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