Black Flies - Ph David Ungaro

Mosche nere, come quelle che percepiscono l’odore della morte poco prima che avvenga, sono i paramedici di New York, abituati a tal punto al sangue, agli aghi nella pelle e alle ferite da proiettile da non impressionarsi più di fronte a niente.

Ollie Cross (Tye Sheridan) entra nel loro mondo dopo aver fallito il test di ingresso a medicina. Da una piccola città del Colorado finisce a East New York, in una caserma tra Brooklyn, il Bronx e il Queens, dove le gang ancora si sparano tra loro e morire di overdose è questione di ogni notte.

La sua estraneità a tanta violenza e a tanta morte è così evidente che Rut (Sean Penn), il più esperto del gruppo di paramedici lo prende con sé, iniziandolo alle notti di New York.

La città, come ogni città, vive di storie nascoste nel buio, di disagio sconosciuto o che, più che altro non fa più notizia. La New York Orientale, quella dei quartieri “difficili” sembra bloccata nel tempo, a quegli anni Novanta-Duemila raccontati più volte al cinema e in televisione.

Il film di Jean-Stéphane Sauvaire, regista francese, da un romanzo di Shannon Burke, vorrebbe raccontare la fatica, mentale e fisica, dei paramedici nelle ambulanze newyorchesi. Una vita di sacrificio e brutalità.

La tentazione di farne un film sugli uomini che giocano a fare Dio, tuttavia, è così forte da trasformarlo in qualcos’altro, con buona pace del giuramento di Ippocrate.

A partire dall’idea (occidentale) di una società che funziona solo se produttiva, pulita, organica ed efficiente, tutti gli anelli deboli, dai tossicodipendenti agli alcolisti, dagli aspiranti suicidi ai gangster di quartiere, diventano ostacoli a una “società funzionale”, elementi di cui per le Mosche Nere quasi si potrebbe fare a meno, per un mondo migliore.

Lì dove c’era dunque un enorme spazio per raccontare la comunità Black & Brown di New York, un sistema sanitario fallimentare e, ancora, la salute mentale, la depressione, il trauma e l’orrore della morte di fronte agli occhi di un essere umano, assistiamo invece alla lenta discesa nell’inferno di Cross, sperando fino all’ultimo che possa ritrovare la ragione e, semplicemente, tornare a fare il medico in Colorado.

L’accanimento sulla morte, in un film del tutto al maschile, (l’unica donna con un ruolo rilevante è quasi sempre zitta o nuda su un letto) dove quindi il punto di vista è anche volutamente più violento e brutale, finisce per allontanare il pubblico, straniarlo e spingerlo via da quella che poteva essere una buona storia, forse sprecata, che probabilmente piacerà più negli Stati Uniti che altrove.

Sean Penn, tuttavia, dà una buona prova attoriale, fatta anche di molti sguardi e silenzi. In un piccolo ma perfetto ruolo, che si addice alla sua figura inquietante, Michael C. Pitt.

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