Nel 2019, con C’era una volta a Hollywood Quentin Tarantino ci aveva presi e gettati in un mondo che non c’è più. Avevamo sfrecciato con Cliff Booth sulle strade piene di mille luci di Los Angeles e su quelle sempre più deserte che portano allo Spahn Ranch. Avevamo fatto dentro e fuori da un set cinematografico testimoniando la lenta decadenza psicofisica di un Rick Dalton che, dall’attore di successo che era, aveva sceso la china fino a diventare, per sua stessa ammissione, un has-been, un attore finito. Sepolto dai più giovani rivali e da un’industria che dopo averlo masticato a piacimento lo aveva anche digerito. Avevamo osservato un intersecarsi di vite in una trama ricca di casualità, fino alla casualità suprema che aveva riscritto la storia. Dandone una versione alternativa, utopistica, seguendo i binari della favola che fin dal titolo il film ha promesso di essere.
Per chi non ne aveva avuto abbastanza (presente!), Tarantino offre la possibilità di immergersi nuovamente – e forse ancora più in profondità – in quel mondo che ci aveva catturato due anni fa. E di cui lui si mostra attento conoscitore ma – soprattutto – folle appassionato. Tutti quei particolari, dettagli, rimandi che nel film erano rimasti ingarbugliati nei dialoghi tra i personaggi, relegati a rumore di fondo, a citazioni visive, ritornano qui con una forza didascalica, quasi saggistica e deliziosamente provocatoria e insolente.
Un mosaico cinematografico-letterario
Il processo di scrittura di Tarantino mi è sembrato per molti versi simile ai miei giri su Wikipedia. Partendo da una ricerca mirata si comincia a rimbalzare di link in link fino ad entrare in un loop arricchente ma disorientante. In C’era una volta a Hollywood aneddoto porta ad aneddoto, in una spirale che trascina nei profondi meandri atmosferici di un’epoca. E poco importa cosa sia vero e cosa no, se Bruce Lee fosse veramente così pieno di sé o se Steve McQueen fosse un cascamorto, questa è la Hollywood di Tarantino. È la fiaba all’interno della quale se ne inserisce una in particolare, questa sì finzionale e trasformativa all’ennesima potenza.
E come se non bastasse, i livelli di racconto vengono ulteriormente sdoppiati quando la storia dei Lancer – nel film rimasta sottotesto accennato – occupa qui interi capitoli. Viene narrata alla stregua del romanzesco di Rick e Cliff, le cui vicende, formalmente parlando, si intrecciano senza soluzione di continuità con quelle di Mirabella, Johnny Madrid e il patriarca Murdock. Si arriva quasi ad avere tutto sullo stesso piano ontologico, e quindi ad affidare il medesimo statuto di realtà a livelli di autenticità diversi.
Ma va bene, perché, ripeto, niente è veramente autentico, tutto è filtrato da uno stile che arriva inevitabilmente ad intaccare l’essenza. Tanto che ad un certo punto sei spinto ad andare a controllare se Jim Stacey sia esistito veramente, per scoprire che la serie tv Lancer è veramente stata prodotta. Rick e Cliff sono così immersi nella realtà che ci viene descritta da non poterli distinguere dai veri protagonisti degli anni ’60. E questo è tutto merito di una mano che plasma a suo piacimento la materia e la nostra percezione di essa.
Due opere complementari, una scrittura che crea mondi
Il libro riempie dei buchi, cambia la prospettiva di alcuni momenti, allarga la visuale su altri. È come se – finalmente – si completasse il mosaico. Alcuni elementi che nel film risultavano immagini impressionistiche vengono qui contornate da un contesto che offre loro una solidità più logica, un’essenza più definita. Roman Polanski che fa colazione innervosito con Dr. Sapirstein, il cane di Sharon Tate; Sharon che va al cinema per guardare il pubblico che guarda il suo film, più che il film in sé e per sé; Charles Manson che, a bordo di un camioncino dei gelati va in quella che ritiene essere la casa di Terry Melcher per chiedergli l’ennesimo favore. Un dato interessante è che nel libro Tarantino non include il massacro di Cielo Drive, né nella versione storicamente accurata, né nella sua sognante – per quanto sanguinosa – versione cinematografica.
Questa calata in profondità dei dettagli cinematografici è resa stilisticamente attraverso una scrittura veramente straordinaria e – perdonate l’adulazione – genuinamente tarantiniana. Crasi, abbreviazioni, storpiature, e soprattutto le hyphenated words (le parole con il trattino, per intenderci), che danno vita a termini nuovi, spesso esilaranti, melodrammatici, esagerati, come spesso sono i personaggi a cui Tarantino le mette in bocca. La prosa è vibrante, ironica, fluida, è Tarantino allo stato puro. Mi piace pensare che, leggendo il libro senza sapere nulla dell’autore, avrei facilmente capito di chi era la mano, perché si ha veramente la sensazione di leggere ciò che fino ad oggi abbiamo visto. L’ottima traduzione non è purtroppo – per la natura stessa dell’operazione – in grado di restituire la pulsazione sfacciata e strafottente dell’originale.
Di seguito un brano nella versione originale e tradotta, per darvi la misura di ciò che leggerete:
Holding up the western paperback in his hand, he asks her, “Would it bother you if I sat next to you and read my book too?”
She looks at him, poker-faced, with the bitchy timing of a pint-sized Bette Davis. “I don’t know. Would you bother me?”
That was pretty clever, Rick thinks. What, does this little squirt walk around with a team of gag writers supplying her bitchy comebacks to rhetorical questions?
Once Upon a Time in Hollywood
Mostrandole il suo libro tascabile, le chiede: “Ti dà fastidio se mi metto qui a leggere anch’io?”
Lei gli rivolge un’occhiata, impassibile, con il piglio di una Bette Davis in miniatura. “Non so. Intendi darmi fastidio?”
Bella risposta, pensa Rick. Cos’è, la mocciosa se ne va in giro con una squadra di battutisti che le scrivono risposte al vetriolo a domande retoriche?
C’era una volta a Hollywood
Leggetelo, tradotto o in originale, ma non perdetevelo per nulla al mondo.
Un grazie a La nave di Teseo per averci dato la possibilità di leggere questo strano, meraviglioso ibrido letterario-cinematografico.
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