Dumbo è uno dei distretti più affascinanti e celebri di Brooklyn. Si trova esattamente sotto il ponte di Manhattan, con un parco e una vista meravigliosa sul ponte di Brooklyn e lo skyline della città. Nella memoria cinefila è lo scorcio tra i palazzi di C’era una volta in America di Sergio Leone. In un certo senso quindi il destino cinematografico di quest’area di New York già si intreccia con il nostro Paese, oggi molto più che con Little Italy che a Manhattan non esiste quasi più. Dumbo è quindi anche il luogo perfetto in cui pensare un evento dinamico, giovane – e sì, un po’ italiano – come il festival di cui vogliamo parlarvi.
Cos’è e come nasce il Dumbo Film Festival
Il Dumbo Film Festival nasce da un’idea di Daniele Ragusa Monsoriu, Davide Iacono e Giovanna Mauro, rispettivamente direttore esecutivo, direttore della programmazione e coordinatrice del festival. È un evento internazionale che inizia a farsi spazio nel panorama statunitense soprattutto tra i filmmaker esordienti, ma seleziona anche titoli già inseriti nel circuito dei festival internazionali, portandoli a New York.
Volendo celebrare e riconoscere le numerose opere del cinema indipendente contemporaneo, il Dumbo Film Festival ha assunto una formula bimestrale. Oltre la grande premiazione e l’evento annuale, cioè, premia periodicamente ogni due mesi i film migliori sottoposti all’attenzione della giuria. I vincitori di quest’anno sono stati annunciati pochi giorni fa, dal 18 al 22 settembre, e la nostra redazione ha avuto modo di visionare i film, scopriamoli insieme.
Miglior Film dell’anno: Zénith (Camille Tomatala)
Al di là delle sei categorie, ogni anno viene assegnato un premio assoluto che attinge a tutti i titoli finalisti. Quest’anno la scelta è ricaduta sul cortometraggio di Camille Tomatala, un coming-of-age in soli 22 minuti. È la storia di Lucie, 14 anni, che si rifugia tra i visi conosciuti di una casa famiglia pur di non vedere la madre in ospedale, prossima alla morte. Sappiamo poco di lei ma quel poco ci basta a empatizzare. Il dolore che nasconde sotto la rabbia è forte e intenso e si scioglie solo accanto a Yannis. Gentile e affettuoso, Yannis è l’apprendista giardiniere, poco più grande di Lucie, per cui lei inizia a provare le prime attrazioni adolescenziali.
Miglior Lungometraggio: Lillian (Andreas Horvath)
Lillian è l’opera prima di Andreas Horvath, presentata già a Cannes nel 2019 e candidata alla Caméra d’Or. È un film austriaco, non statunitense, eppure ricalca il genere tipico dei grandi spazi americani: il road movie. È la storia di Lillian, giovane emigrata russa, che vede infrangersi i suoi progetti negli USA. Ha violato le regole del Visto e parla poco l’inglese, non può trattenersi né essere assunta, nemmeno nell’industria pornografica per cui fa un provino all’inizio del film. Ironicamente la Russia le viene indicata come la nuova Terra Promessa, così inizia a farsi spazio nella sua mente l’idea di tornare in madrepatria. Decide di farlo, però, attraversando lo Stretto di Bering, in Alaska, dove America e Asia quasi si toccano. Ecco che il film diventa un’avventura attraverso i ghiacci e i paesaggi incredibili della natura americana.
Miglior documentario: Murghab (Martin Saxer, Daler Kaziev e Marlen Elders)
Murghab, nel Tagikistan, era una delle città più importanti nell’Unione Sovietica, perché era la città più alta sul livello del mare (3600 metri), vicina al confine con l’Afghanistan e la Cina. Per questo motivo, fino a una generazione fa era una delle città più ricche e più sviluppate dell’URSS. Riceveva provvigioni regolari e frequenti da Mosca, aveva un aeroporto, un ospedale e persino un teatro. Adesso è una città che a malapena sopravvive e resiste. Il film di Saxer, Kaziev ed Elders racconta come procede la vita adesso, descrivendo anche la popolazione tagica, etnicamente composta da popolazioni di origine persiana e di origine turca. Il documentario è stato infatti prodotto dal Dipartimento di antropologia sociale e culturale dell’Università di Monaco ed è stato presentato in numerosi festival di cinema etnografico.
Miglior cortometraggio: Sand (Kyungrae Kim)
Una struttura perfetta nel suo arco narrativo, fino al colpo di scena finale che nei cortometraggi è sempre ben accetto, per dare improvvisamente un senso diverso all’intera storia. Stile pulito e rigoroso, come molto cinema sudcoreano a cui il corto di Kyungrae Kim appartiene. Quella che inizialmente sembra il “semplice” racconto di una coppia disfunzionale, squilibrata e tossica si rivela un intreccio molto più complesso, e se vogliamo, morboso di quel che ci si poteva aspettare. Colpisce il contrasto tra la linearità delle immagini e il turbinio di emozioni che vi si nascondono dietro.
Miglior cortometraggio documentario: Ashes to Ashes (Taylor Rees e Renan Ozturk)
Ashes to Ashes, ceneri alle ceneri, polvere alla polvere, come dice la dottoressa Shirley Jackson Whitaker, è la frase di rito usata ai funerali, per chiudere un cerchio. È ciò che in un certo senso serve a guarire, a far cicatrizzare una ferita dell’anima, come può essere un lutto. C’è una ferita che ancora stenta a guarire negli Stati Uniti, un trauma rimosso anziché affrontato e cioè la morte di migliaia di afroamericani attraverso le torture dei loro connazionali: i linciaggi. Il film di Rees e Ozturk racconta appunto l’incontro fra due simboli, fra due persone che in modo diverso cercano di chiudere questa ferita.
La prima è appunto la dott.ssa Jackson Whitaker che organizza funerali simbolici per gli afroamericani linciati. Cerimonie in cui è importante dire i loro nomi ad alta voce, come nella tradizione africana, e lasciare che vadano in pace. Il secondo è il celebre artista Winfred Rembert, ad oggi l’unico uomo noto sopravvissuto a un linciaggio. Il ricordo di quella terribile esperienza è ancora tanto vivido da tenerlo sveglio la notte. È ciò che guida la sua mano quando incide nel cuoio le scene della sua stessa vita. Materiale interessante poi, il cuoio (dipinto a mano), crudele quanto l’esperienza che ha vissuto.
Miglior film d’animazione: The Haunted Swordsman (Kevin McTurk)
Una tecnica semplicemente sbalorditiva quella usata da Kevin McTurk per le sue animazioni in stop motion. I modelli iperrealistici lasciano senza parole. L’ambientazione orientale, probabilmente dispersa tra le montagne del Giappone, permette di giocare con figure mistiche lontane dal nostro immaginario e decisamente inquietanti. Come suggerisce il titolo infatti, la missione del guerriero è in realtà infestata da mostri, fantasmi e spiriti che si frappongono al suo cammino.
Miglior film sperimentale: Up and Through (Kamen Stoyanov)
Proprio perché sperimentale, il cortometraggio di Kamen Stoyanov è piuttosto difficile da spiegare in senso narrativo. È più un’esperienza sensoriale che fa molto uso del suono, sia musica che rumori d’ambiente. Ha un effetto quasi ipnotico sullo spettatore, mentre questi insegue con lo sguardo il percorso di un secchio pieno d’acqua trascinato su per un collina e poi all’interno di un palazzo in costruzione.
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