FERRO documentario - credits: Amazon Prime Video

FERRO è una favola che conoscevamo, ma che non ci siamo mai raccontati. Così la descrive lo stesso protagonista, Tiziano Ferro, annunciando l’uscita del film su Prime Video, lo scorso 6 novembre. E la verità di questa semplice affermazione colpisce nel profondo chi, come me, avrebbe dovuto accorgersene già tanto tempo fa.

Per chi come me intendo naturalmente i fan irriducibili, il pubblico che da vent’anni conosce a memoria ogni testo, ogni sottotesto e ogni contesto delle canzoni di Tiziano Ferro. Chi ha ascoltato per tutto questo tempo le fragilità nascoste dietro ai tatuaggi sulle vene dei polsi e dietro i racconti più intimi dei suoi diari (pubblicati nel 2010).

All’improvviso Ferro decide di raccontare qualcosa che non aveva mai voluto lasciar trasparire, non in modo diretto almeno. Se ripenso a un concerto a Roma di qualche anno fa, infatti, gli indizi per capire c’erano già tutti, con la Preghiera della serenità che anticipava il suo arrivo sul palco.

«Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare,

il coraggio di cambiare le cose che posso,

e la saggezza per conoscere la differenza.»

Preghiera della serenità

Ingenuamente, e conoscendo l’incrollabile fede di Ferro, associai queste parole a un monito suo personale e non al mantra degli Alcolisti Anonimi. Sentirlo adesso, invece, parlare in maniera così aperta della sua dipendenza è stato un dono inaspettato, una confessione che non sapevo nemmeno di voler ascoltare.

FERRO - © Prime Video
FERRO – © Prime Video

E la storia la racconto per davvero: FERRO e l’alcolismo

È Tiziano Ferro stesso a spiegare subito di fronte alla telecamera il motivo e il senso del documentario. La volontà di parlare finalmente a cuore aperto del suo alcolismo. È la sua seconda grande dichiarazione pubblica, dopo il coming out, un modo per rivelare una parte di sé che, rimanendo nascosta, non avrebbe fatto altro che procurargli altra sofferenza. Nel racconto e nella condivisione, Ferro trova una nuova forma di guarigione. “Finalmente ho trovato il modo di dirlo, che è questa storia, questo film. E allora la storia la racconto per davvero”.

Ho sempre dei dubbi quando l’idea di un documentario parte dal protagonista stesso, perché temo che in fondo non sia del tutto sincero. Tuttavia seguo, osservo e ascolto quest’uomo da circa vent’anni e, benché fossi preparata già al peggio, pensando che il film fosse solo un’inutile mossa di marketing, ho ritrovato il Ferro giovanissimo del 2001 e ho scoperto molto di più. L’onestà disarmante, la frustrazione, la rabbia con cui ha raccontato questa caduta e il coraggio della sua risalita, mi hanno convinta completamente.

Una regia solida, per un soggetto che desidera raccontarsi

Il merito di sicuro va anche alla forma del documentario stesso, nel modo in cui si decide di raccontare questa storia. La regia è di Beppe Tufarulo, e tale rimane. Anche se è una regia che osserva senza intervenire. Lascia che sia il soggetto a raccontarsi, come in una lunga intervista di cui però non possiamo sentire le domande. Tiziano Ferro rimane quasi sempre sullo schermo, sia nel tempo presente, quando si rivolge a noi direttamente, sia nei vecchi filmini e video personali montati nel film. Ferro cioè, ha il controllo della sua narrazione ma non prende il controllo del film (che è un altro livello, sovrapposto, di narrazione). E questo è davvero apprezzabile.

Attraverso brevi incursioni nel passato, per esempio, la regia e il montaggio ci mostrano un momento essenziale della vita di Ferro, con tutta la brutalità che un’immagine può avere rispetto alle parole. Mentre il cantautore, in voice over, spiega come fu costretto a perdere circa quaranta chili in pochi mesi per firmare finalmente un contratto, il nostro sguardo passa dal Tiziano di 111 kg a un fuscello con gli zigomi scavati e gli occhi sbarrati.

FERRO - © Prime Video
FERRO – © Prime Video

Non voglio tirar fuori concetti complessi, ma questo passaggio per me è stato perturbante in senso freudiano: laddove avrei cioè dovuto riconoscere immediatamente il familiare Tiziano Ferro di Xdono, per un attimo ho visto solo un ragazzino sconosciuto, minuscolo e fuori di sé. Esattamente come conferma poi la sua voce narrante, un ragazzino che ogni giorno si vestiva di un corpo che non era il suo e non vi si riconosceva. E in questo senso le immagini costruiscono un significato parallelo alle parole e le arricchiscono.

Due anime complementari di FERRO, tra presente e passato

Ammetto che i passaggi che mi hanno colpita di più sono appunto quelli del passato, degli inizi della carriera. Perché riguardano il periodo in cui Ferro sparì all’estero, prima in Messico e poi nel Regno Unito, non permettendo letteralmente a nessuno di capire cosa stesse succedendo nel suo mondo. Sono quelli gli anni in cui nacque la dipendenza e verso cui adesso lui ritorna, per aprirsi una volta per tutte e condividere quella solitudine durata fin troppo. Certo, niente di tutto ciò sarebbe possibile se non ci fosse l’altra faccia della medaglia: la serenità del matrimonio con Victor Allen e la vita a Los Angeles. Quell’equilibrio che, una volta raggiunto, permette di guardare indietro senza cadere a pezzi.

Perciò, in realtà, è una storia che va letta nella prospettiva di un conflitto interno, apparentemente risolto e raccontato in un momento di quiete e di piena consapevolezza. Siamo abituati a pensare e apprezzare maggiormente Tiziano Ferro nei suoi (e nei nostri) momenti di crisi, anche nel senso etimologico di cambiamenti. E questa è sì una storia di trasformazione, ma rispetto a quel che ci si può aspettare non è un pianto di autocommiserazione, è la testimonianza di un atto di coraggio.

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