Dog non ha amici né partner, e si sente così solo nel suo piccolo appartamento a Manhattan che dopo aver visto uno spot illuminante in TV decide di costruirsi un robot che possa fargli compagnia.
E se nella corsa agli Oscar avessimo sottovalutato il film d’animazione del regista spagnolo Pablo Berger? Il mio amico robot (Robot Dreams), nei cinema dal 4 aprile distribuito da I Wonder Pictures in collaborazione con Unipol Biografilm Collection, è un’opera sorprendente nella sua delicata semplicità.
Incontrarsi, allontanarsi, sognare
Il titolo originale evoca immediatamente i racconti di Isaac Asimov (e il sognare dei suoi droidi), ma la fantascienza non c’entra niente, la storia d’animazione ispirata alla graphic novel Robot Dreams di Sara Varon racconta di sentimenti universali ai quali non servono descrizioni superflue. Al suo primo lungometraggio d’animazione il regista spagnolo Berger cambia totalmente genere (dal precedente Abracadabra del 2017) per realizzare una narrazione senza dialoghi in cui la musica è fondamentale: con il suo mood newyorchese che si esprime attraverso melodie jazz, brani eseguiti al piano e suoni urbani, riflette e racconta l’essenza della Grande Mela, in una topografia a cartoni fedele e colorata.
I protagonisti sono una cane e un robot che diventano migliori amici, ma che rimangono anche vittime degli imprevisti che nella vita mettono in stand by i rapporti e le relazioni, dilatando l’attesa di incontrarsi di nuovo, rivelando la fragilità di un sentimento così raro. In una New York degli anni ’80 popolata da animali antropomorfizzati Berger (con una squadra di 20 artisti) commuove, emoziona, rimane nel cuore con la rappresentazione di un sentire comune, quello legato alla perdita e all’allontanamento di una persona cara, anche se non è una persona bensì un robot e ci troviamo in una Zootropolis vintage e 2D.
I sogni di Robot
Dog e Robot sono costretti a separarsi quando, in seguito ad una disattenzione, Robot si arrugginisce dopo aver fatto il bagno alla spiaggia di Coney Island. Una giornata perfetta si conclude con il triste arrivederci tra i due; troppo pesante per essere trasportato dal suo amico, Robot rimane lì immobile, come un manichino di ferro in balia dei giorni. Dog tornerà più volte per cercare di riportarlo a casa, senza successo. La spiaggia viene inoltre chiusa fino alla lontanissima data del primo giugno, che Dog segna sul frigo come promemoria.
Come nella quotidianità di chiunque, il tempo passa, i mesi si susseguono, e i due vivono a distanza avventure e vicende continuando a pensare all’assenza dell’altro. Robot, visto come un oggetto senza sentimenti da qualcuno e come un riparo da una simpatica famiglia di passerotti, intanto sogna. Le sue proiezioni oniriche sono complesse e nostalgiche, partono costantemente dal desiderio di tornare dal suo amico, suonare alla porta di casa, riabbracciarlo.
Sono sogni che si contaminano ai ricordi (un robot può ricordare, e quindi sognare? Asimov fa di nuovo capolino), un omaggio continuo che Berger e il direttore dell’animazione Benoît Feroumont fanno al cinema e alla città di New York, scenario di indimenticabili storie sul grande schermo (come la panchina di Manhattan di Woody Allen). Nei sogni di Robot, freudianamente, New York diventa la città di Smeraldo di Oz (dal film che aveva guardato una sera con il suo amico), oppure uno scenario di cartone che non esiste veramente. Ricorrentemente sogna di essere stato rimpiazzato, di non riuscire a parlare con Dog, di essere stato dimenticato.
Anche Dog sogna, tra i vari tentativi di trovare nuovi amici mentre aspetta di andare a riprendere il suo sulla sabbia, ma la solitudine continua a riempire la sua vita, verso la quale si sente inadeguato la maggior parte delle volte. Si rincontreranno? O il destino ha altro in serbo per loro?
In Il mio amico robot, la sceneggiatura è un continuo caleidoscopio di sorprese visive e narrative, lo stile semplice e lineare è basato su un’animazione tradizionale, mentre si snoda nel racconto di una storia agrodolce che chiunque potrebbe vivere, prima o poi. Le imperfezioni di Dog lo rendono incredibilmente umano, così come la meraviglia negli occhi di Robot è un’emozione che possiamo sentire.
Settembre e New York
Non si può guardare Il mio amico robot senza fare una piccola riflessione sulla spensieratezza della rappresentazione legata al periodo storico, che malinconicamente si riflette nell’inclusione delle Twin Towers, nel film ancora presenti nel panorama della città, e nella canzone scelta per suggellare l’amicizia tra i protagonisti, September degli Earth, Wind & Fire (1979).
Ba-dee-ya, say, do you remember?
September, Earth, Wind & Fire
Ba-dee-ya, dancin’ in September
Ba-dee-ya, never was a cloudy day
Esiste un prima e un dopo nella rappresentazione della città, che non prende in considerazione solo l’assenza architettonica ma anche lo spirito con cui la città si raccontava (e veniva raccontata) prima dell’11 settembre 2001.
Ormai assorbito nella nostra memoria visiva, quell’evento tragico trasmesso in diretta segna un punto di non ritorno, per gli abitanti e per il l’intrattenimento e le immagini. Per questo guardare un film o una serie TV ambientati prima dell’attentato ci portano automaticamente in un safe space, un prima pieno di speranza in cui gli eventi vengono ridimensionati in relazione al dopo. Il mio amico robot si avvale di un potere di attrazione intuitivo prima che narrativo, sulla scia di una positività che avvertiamo come vibrazione intrinseca.
Il mondo visibile combacia con quello invisibile, sentimenti e sogni nutrono il quotidiano di Dog e Robot, che hanno avuto la fortuna di incontrarsi, sentendosi unici almeno per un po’, conservando la memoria di un momento irripetibile e totalmente spensierato.
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