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L’opera prima del regista Juan Antonio Bayona viene classificata come horror ma rivela qualcosa che va oltre il genere

Laura è un’orfana che ha condotto un’infanzia felice in un orfanotrofio vicino al mare. Dopo essere stata adottata ed essere cresciuta, decide di comprare la vecchia struttura e di trasferirsi lì, per aprire insieme al marito Carlos una casa famiglia. Insieme a loro c’è il figlio adottivo Simón, affetto da HIV. Appena arrivati, però, cominciano i problemi: il bambino, infatti, racconta dei suoi amici immaginari, che gli fanno scherzi e lo rendono partecipe dei loro misteriosi giochi. Si susseguono una serie di episodi misteriosi e preoccupanti, che culminano con l’inspiegabile scomparsa di Simón. Da quel momento la madre, disperata, dedicherà la sua vita alla ricerca del figlio, facendo anche appello alle oscure presenze che, ormai è certo, popolano la casa.

Un’eccellente opera prima

Il film, uscito nel 2007 e opera prima del regista Juan Antonio Bayona (The Impossible, Jurassic World-Il regno distrutto), vanta fra i suoi produttori Guillermo Del Toro, che, prevedibilmente, è riuscito a imprimere la sua inconfondibile impronta. La casa in cui si svolge la vicenda, infatti, ricorda molto da vicino l’imponente dimora vittoriana di Crimson Peak, così come la sua cupa atmosfera.

La particolarità di The Orphanage è che, sebbene parli di spiriti e di fenomeni paranormali, non fa uso di effetti speciali: i jump scare che punteggiano inevitabilmente la narrazione e il costante senso di angoscia che attanaglia lo spettatore non è dato dalla CGI, bensì dall’effetto suspense sapientemente gestito dal regista e dalla sua grande abilità nel giocare con la psicologia del pubblico. Ciò che turba di più, infatti, non è la comparsa improvvisa di un mostro, ma quello che viene prima: la trepida e ansiosa attesa, la consapevolezza che capiterà qualcosa di tremendo.

Un altro punto chiave è l’empatia: il pubblico teme per i personaggi nel momento in cui riesce a simpatizzare con loro. E qui ci si riesce perfettamente. Tutto ciò che vive Laura, sembra quasi che capiti a noi. Possiamo avvertire la sua ansia, il suo dolore, la paura per il figlio, la terribile incertezza in cui è costretta a vivere giorno dopo giorno. E non a caso, The Orphanage ha ottenuto numerosi riconoscimenti, fra cui ben sei premi Goya su quattordici candidature e si può dire che siano davvero meritati. 

Un horror atipico

Nonostante The Orphanage sia classificato come “horror”, definirlo tale è piuttosto limitante. Certo, ci sono i fantasmi, non mancano risvolti grotteschi e inquietanti, ma la base, ciò che si vuole veramente raccontare, è l’immenso amore di una madre per il figlio. Un amore assoluto e viscerale che, tuttavia, non dipende necessariamente dal fatto di averlo messo al mondo e di vederlo quindi come una “propria creatura”.

Simón, infatti, è adottato, ma questo non impedisce a Laura di sentirlo suo e di ritenersi responsabile della sua vita fino alle estreme conseguenze. La donna, infatti, rinuncerà alla sua esistenza per cercare il figlio, animata dalla forza della disperazione, malgrado i tentativi del marito Carlos di dissuaderla. L’uomo rappresenta la parte razionale, colui che, malgrado il dolore, ritiene che sia giusto scendere a patti con la terribile perdita e andare avanti.

Ma Laura non è disposta ad accettare quello che per lei è un misero compromesso. Decide di proseguire la ricerca per conto suo. E nel momento in cui non ottiene nulla dalla polizia, si appella all’Irrazionale. Ricerca Simón attraverso il dialogo con gli spiriti, dialoga con le anime perdute dei bambini che un tempo erano stati suoi amici. E proprio loro decidono di aiutarla, comunicando attraverso il velo apparentemente impenetrabile che separa il mondo dei vivi dall’aldilà. 

L’Aldilà: un luogo inaspettatamente connesso con il nostro mondo

The Orphanage mostra come il mondo dei morti, in realtà, comunichi con la nostra realtà. Come dice la medium chiamata da Laura per mettersi in contatto con gli spiriti, se in un luogo succede qualcosa di brutto, come una morte violenta, rimane una sorta di eco. Quando si prende una botta, o si riceve un pizzico, il dolore rimane per un po’ sulla pelle sensibile. Rimane il ricordo tattile di ciò che è successo e l’unico modo per lenire il fastidio è una carezza.

The Orphanage (2007) CREDITS: Web

Gli spiriti, dunque, non vanno combattuti: hanno bisogno di affetto, come gli esseri umani. Hanno bisogno di qualcuno che si prenda cura di loro e li aiuti a chiudere ciò che hanno lasciato irrisolto sulla Terra. E Laura di The Orphanage dimostra non solo di aver assimilato del tutto questo concetto, ma di essere anche una madre a tutto tondo: non solo si occupa di Simòn, ma anche degli spiriti di quei bambini che un tempo erano stati suoi amici.

Come Wendy di Peter Pan, lei sente il tempo che passa, cresce e invecchia. Ma non rinuncia del tutto alla bambina che c’è in lei e si serve di quella per comunicare con i suoi piccoli amici e risolvere il mistero che avvolge il vecchio orfanatrofio. E qual è la ricompensa finale? Naturalmente il suo ritorno all’Isola che non c’è: un luogo meraviglioso dove i bambini vivono felici per l’eternità e dove il faro sulla spiaggia, fulgido ricordo d’infanzia di Laura, non cessa mai di brillare. 

In The Orphanage la morte, dunque, non è vista necessariamente in un’ottica drammatica e pessimistica: Laura è riuscita finalmente a ricongiungersi con il figlio, grazie ad un amore in grado di travalicare i confini del tempo e dello spazio. E Carlos, rimasto solo, riesce a sorridere, perché sente la presenza dei suoi cari accanto a lui e, in cuor suo, sa che non lo abbandoneranno mai. In fin dei conti, non sono spariti. Sono solo passati dall’altra parte del velo. 

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