È impossibile non guardare Black is King almeno due volte di seguito. La forza, la potenza e l’emozione che questo visual album di Beyoncé è in grado di trasmettere vanno oltre ogni immaginazione. Per questo, forse, è arrivato il momento di prendere seriamente in considerazione Beyoncé come filmmaker, come artista a 360⁰. La combinazione di immagine e musica, molto più che nel precedente Lemonade, costruisce in questo caso infatti un percorso di senso compiuto, in cui l’una non può prescindere dall’altra. Siamo già al di là del videoclip, è un’esperienza narrativa completa.
Black is King, la storia
L’assonanza è palese: Black is King è un gioco di parole con The Lion King. Le canzoni originali sono tratte infatti dall’album The Lion King: The Gift, rilasciato da Beyoncé nel 2019 in occasione del live action di Jon Favreau. Come è noto, Beyoncé è coinvolta in prima persona nel remake, avendo prestato la voce alla leonessa Nala. Black is King quindi è un viaggio fortemente ispirato all’avventura di Simba, ben riconoscibile in tutto il film. Il Re Leone è l’appiglio culturale che rende il visual album condivisibile in maniera universale, nonostante i riferimenti estremamente specifici all’Africa.
Il vero senso di questo ulteriore ripensamento del classico Disney rimane comunque nelle questioni che riguardano la Diaspora Africana. È una reazione al costante sfruttamento di un’immagine distorta dell’Africa e dei suoi discendenti. Parafrasando le stesse parole di Beyoncé, è una celebrazione dell’eredità culturale della Black Ancestry.
Black is King, lo stile
Fondamentale è dunque l’idea della nobiltà, del prestigio, dell’onore e dell’orgoglio dell’essere nero. La forma attraverso cui si sceglie di comunicare tutto ciò è un ibrido fra cultura visuale, retaggi musicali e poesia. Le parole sono essenziali in Black is King e costituiscono un intero strato di significato. Indimenticabili, risuonano e vibrano dando una profondità inaspettata e commovente al film. Non a caso tra le autrici, ed è doveroso ricordarlo, figurano due poetesse contemporanee di origine africana, Warsan Shire e Yrsa Daley-Ward. I testi si intersecano con stralci di audio originale del live action per presentare i singoli capitoli della storia di Simba. Ognuno di essi è poi rielaborato in maniera simbolica nella parte musicale e visuale dei vari brani. È qui il caso sottolineare che Beyoncé non è l’unica interprete delle canzoni: molta attenzione viene riservata ad artisti africani, tra featuring e brani esclusivi.
L’Africa rappresentata da Beyoncé
Non ho la presunzione né le competenze per riconoscere tutti i riferimenti culturali, antichi e contemporanei, rappresentati in Black is King, ma vale la pena citare almeno i più facili da individuare. Innanzitutto Beyoncé rappresenta un insieme di culture in continua comunicazione tra presente e passato. Il personaggio da lei interpretato nella linea narrativa principale è l’incarnazione degli Antenati di Simba, una guida costante e un continuo anello di congiunzione tra i vivi e i morti. L’allineamento con la spiritualità africana (e il suo animismo) è il primo passo da compiere per addentrarsi nel film.
Sempre in questo senso, stupendo è il riferimento alle maschere tradizionali. Alcune sono le Kanaga dei Dogon, riconosciute come maschere femminili, simbolo di vita. Altre sono più simili a quelle della danza del Gule Wamkulu, che in alcune culture del Malawi, Mozambico e Zambia rappresentano il rito di passaggio dall’infanzia all’età adulta. Se si fa caso, nel film queste ultime appaiono in un momento essenziale: quando Simba, da giovane adulto, viene richiamato per la prima volta al suo dovere di legittimo re. Dal punto di vista musicale, il riferimento è al brano Ja Ara E di Burna Boy (che tradotto dalla lingua Yoruba significa anche mettere giudizio, crescere).
Visivamente, questo momento emerge dall’insieme perché rappresenta il punto di svolta della narrazione ed è volutamente ambientato in un contesto ancora non esplorato nel film: una moderna città africana, lontana dagli stereotipi occidentali.
Onnipresenti, ovviamente, sono poi i riferimenti estetici, acconciature e costumi in primo luogo. È facile notare per esempio le capigliature rosse (di ocra e grasso) tipiche degli Himba della Namibia. O le trecce nigeriane in vari stili (Shuku, Koroba, Orisa Bunmi), considerate non semplici ornamenti ma vere e proprie forme di rappresentazione della regalità: acconciature al posto delle corone. Per quel che riguarda gli abiti, oltre ad alcuni modelli tradizionali (come la gele nigeriana), la particolarità è che Beyoncé ha voluto indossare principalmente opere originali di stilisti afrodiscendenti contemporanei, per un totale di 69 (meravigliosi) outfit.
I singoli videoclip
Alcuni brani sono stati o saranno rilasciati da Beyoncé come singoli, per questo la loro reinterpretazione visuale, pur rientrando nella narrazione generale, si distingue dal resto. Si tratta di Already e Brown Skin Girl.
Brown Skin Girl è una dichiarazione d’amore alla propria pelle, alla bellezza e alla fondamentale importanza della donna nella cultura africana e afrodiscendente. È inoltre significativo ritrovare in questo video il volto familiare di Kelly Rowland, ma anche quello di Naomi Campbell, Lupita Nyong’o, Tina Knowles (la madre di Beyoncé) e soprattutto la piccola Blue Ivy, emozionatissima. Come sempre la messa in scena è spettacolare, ma ciò che colpisce maggiormente è l’immagine muta di Beyoncé con un copricapo di capelli intrecciati (simile ai copricapo Mangbetu). Un frame che è un’opera d’arte in ogni dettaglio.
A questi si aggiunge Mood 4 Eva (ft. Jay- Z e Donald Glover). Brano che rispecchia volutamente la filosofia dell’hakuna matata, di cui è propriamente il sostituto in questa incredibile versione del Re Leone. Spensieratezza, esagerazione e ironia sono le parole chiave. Tutto, nella musica e nelle immagini, concorre a farne uno dei momenti più memorabili e divertenti del visual album. La componente più interessante è però anche quella che passa più inosservata: la scenografia e le innumerevoli opere d’arte inquadrate, alcune della collezione privata di Tina Knowles.
Already, cuore pulsante di Black is King
Se si pensa alla dedica che Beyoncé ha voluto lasciare alla fine del film, immediatamente vengono in mente le immagini della sequenza di Already.
Dedicato a mio figlio, Sir Carter. E a tutti i nostri figli e le nostre figlie. Il sole e la luna si inchinano di fronte a voi. Siete le chiavi del regno.
Dedica finale di Black is King
Schiere di uomini neri, maestosi, forti, giovani, immortalati nel rito gioioso e liberatorio della danza. Sono gli stessi uomini che vengono uccisi per strada, sparati, soffocati, eliminati sistematicamente. Questo è il momento più politico dell’opera di Beyoncé, tanto sottile quanto inequivocabile. Più che un grido di denuncia contro la società, è però una rivendicazione dell’identità, della gloria e dello spirito dell’eredità black.
Ai bambini afrodiscendenti come questo Simba viene insegnato a lasciar cadere la propria corona. Black is King li invita a raccoglierla, a tenere la testa alta e riconquistare il proprio posto nel mondo, esattamente come viene pronunciato nei testi. A fugare ogni dubbio, compare all’improvviso un altro pezzo d’arte dal significato inconfondibile. È l’African American Flag (1990) di David Hammons, una bandiera a stelle e strisce ma con i colori panafricani, rosso, nero e verde. Un simbolo estremamente potente, che apre tutto un altro discorso sulla coscienza scissa (double consciousness), tra appartenenza e rifiuto, dell’identità afro-americana.
Chi lo sa, forse è proprio da questa svolta politica, nel senso più ampio e nobile, che inizierà il prossimo capitolo della grande pop star.