Non poteva avere miglior inaugurazione la diciottesima edizione della Festa del Cinema di Roma, che si è aperta con C’è ancora domani, il film (al cinema dal 26 ottobre) interpretato e diretto da Paola Cortellesi, qui al suo esordio come regista.
Una commedia dolceamara, scritta insieme a Furio Andreotti e Giulia Calenda (autori quest’anno anche di Nata per te), che si snoda trovando un ritmo ideale (frutto di ricerca, sia narrativa che estetica) per raccontare un pezzettino di Storia che ha cambiato le sorti dell’Italia, attraverso un’altra storia, quella di Delia e della sua vita di sogni mai realizzati, in parte, e sogni in cui credere ancora. L’ambientazione, una Roma riportata al 1946, è piena di volti che sembrano usciti da una pellicola neorealista, eppure si contamina volutamente al presente, soprattutto attraverso la colonna sonora che crea interessanti cortocircuiti anacronistici con brani di Daniele Silvestri, Lucio Dalla e incursioni hip-hop.
Mettere in scena la violenza subita da una donna, tra le mura domestiche, nasce da un’urgenza attuale e importantissima; ma come era prevedibile da una personalità come quella di Paola Cortellesi, il registro drammatico si sovrappone a quello comico, e questo fa di C’è ancora domani un film fortemente equilibrato, che commuove come è giusto che sia, ma che fa anche ridere, grazie ad una scrittura che non insiste mai sulle ovvietà ma che riesce a trovare la chiave per essere originale e diretto.
Il bianco e nero, il dopoguerra, i soldati americani
La scelta del bianco e nero non è l’unico elemento che riprende il passato: la ricostruzione dei luoghi, gli abiti, molti dialoghi, richiamano gli anni del dopoguerra ma soprattutto ne richiamano la produzione cinematografica (grazie anche alla fotografia di Davide Leone). Il film inizia con Delia (Paola Cortellesi), che ancora dorme nel letto, accanto al marito Ivano (Valerio Mastandrea), che al posto del buongiorno le tira uno schiaffone, con annesso rumore da slap stick che ridimensiona subito il gesto, e ci fa capire immediatamente il tono.
Madre di tre figli (una femmina e due maschi), Delia inizia la sua giornata preparando la colazione con latte e pane, prendendosi cura dell’insopportabile suocero (Giorgio Colangeli), ex strozzino e con le mani lunghe, poi esce per i molteplici lavoretti che portano avanti la famiglia insieme al lavoro al cimitero di Ivano e quello in stireria della figlia Marcella. Costantemente maltrattata dal marito, si rifugia nell’idea di un matrimonio più felice per Marcella per cui sta risparmiando in segreto, passa davanti all’officina del suo ex fidanzato Nino (Vinicio Marchioni) pensando ad un esito diverso per la sua vita se fosse rimasta con lui.
Ogni suo gesto è avvolto nella paura di sbagliare, di fare male, il clima di terrore instaurato da Ivano non le permette di uscire, di prendere iniziative, e per qualsiasi errore la conseguenza è una gran quantità di botte, che non le lasciano segni sul viso ma sul corpo, ben nascosti da camicette logore e grembiule. I soldati americani continuano ad occupare le strade della città mentre i manifesti per le votazioni del referendum sul voto tra Monarchia o Repubblica si moltiplicano sulle mura scrostate. Con un’importante novità: sarà la prima occasione in cui anche le donne potranno esprimere la loro preferenza.
Quel voto simbolico vale più della possibilità di recuperare un amore perduto, o di fuggire dal proprio presente, è il primo passo per rimediare ad un “danneggiamento” costante che intima alle donne di rimanere zitte, donne di qualsiasi condizione sociale o età: ma l’occasione per parlare sta arrivando.
La violenza domestica come un pericoloso passo a due
La violenza che Delia subisce è al tempo stesso sublimata e rafforzata dal grande intuito di trasformarla visivamente in una danza, un passo a due molto pericoloso, una danza macabra in cui il sangue e i lividi “scompaiono” a favore di una performance. Noi vediamo i coniugi danzare, ma è solo un’illusione, mentre Ivano picchia Delia i figli chiusi in camera e i vicini di casa non possono fare a meno di essere assaliti dal rumore della violenza, cieca e ferma.
Quello che la protagonista subisce è un timore continuo di non essere abbastanza, di non fare ciò che “dovrebbe”: C’è ancora domani richiama uno scenario di tempi andati, in cui l’uomo prende la parola e ha il potere di azzittire la voce della donna, spezzandola poco a poco, prima fisicamente, pelle e ossa, poi interiormente, contagiando pensieri, desideri, riducendo a zero la vitalità dell’iniziativa, annullando la donna, legittimato da una società che si basa su tale funzionamento.
Ma non siamo andati troppo in là da questo regime amaro, Cortellesi lo sa benissimo, e la sua interpretazione è un forte inno alla libertà. Per questo le semplici “botte” non si riducono a calci e pugni, bensì ad una metafora ben più incisiva, che fa dell’arte lo strumento eletto per portarla fino a noi, che togliendone l’aggressività, la rende ancora più incisiva e scioccante.
Questo non sarebbe stato possibile senza un degno compagno di ballo: Valerio Mastandrea nell’imperscrutabilità del suo volto riesce a restituire la ruvida ignoranza di Ivano, i suoi disturbi post traumatici, l’impetuosa prepotenza maschile.
Rinascere forti
Ma se il rapporto uomo-donna è disfunzionale e tutt’altro che paritario (e anche la giovane Marcella ne farà esperienza), quello tra donne è la vera linfa che dona respiro alla narrazione, lo vediamo al mercato colmo di voci e odori dove lavora l’amica di Delia, Marisa (Emanuela Fanelli). Le due si confidano, riprendono fiato, si concedono di ridere nonostante tutto. I loro momenti sono così veri da convincerci a credere a quelle risate, distendono la paura e alleviano il senso di povertà. Insistendo su questo la regista non lascia spazio al dubbio: salvarsi insieme è ancora possibile. Più ora che nel 1946.
Marisa infatti, nonostante abbia un rapporto diverso con suo marito, e per questo non riesca a capire perché Delia non si liberi dalla sua gabbia, risponde comunque ad un pensiero imperante che pervade tutta la società, uomini e donne comprese. Lasciare la casa e i figli non è una possibilità, come non lo è girare le spalle al proprio uomo, violento o meno che sia.
Epilogo
E non ho scudi per proteggermi né armi per difendermi
A bocca chiusa, Daniele Silvestri
Né caschi per nascondermi o santi a cui rivolgermi
Ho solo questa lingua in bocca
E forse un mezzo sogno in tasca
E molti, molti errori brutti
Io però li pago tutti
Una lettera misteriosa arriva a Delia, protetta dal silenzio della portinaia e conservata di nascosto da Ivano. Fino alla fine pensiamo che la donna voglia fuggire con Nino, il suo amore perduto che sta per trasferirsi al nord. Ma il “domani” del titolo ha un altro senso, molto più profondo ed evocativo, che inizia da una scelta.
Attuale, poetico e intelligente, C’è ancora domani è una sorpresa che lascia con la promessa di continuare la rivoluzione, e qualche lacrima per Delia e le donne che ci hanno preceduto.
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