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Crip Camp è il film documentario diretto da Nicole Newnham e Jim LeBrecht e candidato agli Oscar 2021 come Miglior Documentario. La produzione è affidata alla Higher Ground Productions di Barack e Michelle Obama (anche produttori esecutivi del progetto).

Crip Camp/Camp Jened

Crip Camp segue una serie di storie, che si incontrano a Camp Jened, nell’estate del 1971. Queste storie riflettono vite che (quasi) nessuno ha mai scelto di filmare prima di quel momento. I protagonisti sono un gruppo di persone con disabilità che proprio durante quell’estate, in un’esperienza chiarificatrice, si rendono consapevoli dell’esigenza immediata di affermarsi come “parte del mondo”, traendo ispirazione da un posto che ne rimane utopicamente fuori.

Camp Jened si trovava in una zona montuosa verso i monti Catskill, totalmente immerso nella natura, e accoglieva giovani portatori di handicap, a gestirlo un gruppo di “hippy”. Alcuni di questi “alternativi” istruttori intervengono nel corso del documentario alternandosi agli ospiti che ne raccontano l’esperienza. C’erano barriere ovunque per le persone disabili, dalle più piccole cose fino alle enormi e derivanti ingiustizie. Eppure nel perimetro del campo potevano muoversi in totale libertà, interagire e confrontarsi, buttarsi in piscina o suonare insieme.

Fuori da lì tutto era difficile per loro, ritenuti non autosufficienti e quindi privati a priori della possibilità di fare qualsiasi esperienza. Ma non era così nel campo estivo che Ann, una delle ragazze che si trovava lì, descrive come la sua Woodstock. Il fermento di nuove spinte investì anche chi in quel luogo aveva aveva capito di contare tanto quanto gli altri, che magari potevano camminare senza intralci, senza per questo essere migliori.

Documentare la storia a partire da un’utopia

Crip Camp documenta un esperimento che diede il via alla formazione di una comunità, nato come il tentativo di lasciare che gli adolescenti, anche quelli meno fortunati dal punto di vista delle abilità richieste per essere considerati dalla società, vivessero la loro estate come tali. L’esperienza Jened annientò qualsiasi stereotipo. Mise in atto quel concetto di libertà che negli anni ’70 si infiammava nelle rivolte giovanili, ma che non aveva mai preso il via da individui con disabilità.

Potevano manifestare? Potevano portare avanti scioperi della fame e marce per i propri diritti? Basta superare la prima parte del film, dopo il ritorno a casa da parte degli ospiti, per seguire la loro vita, che nel corso degli anni li ha portati a rincontrarsi ed unirsi in una rivoluzione che ha cambiato il mondo, diventando pionieri di un grande movimento per i diritti civili.

I protagonisti

Jim LeBrecht, uno dei due registi, nonché sceneggiatore e produttore del documentario, era un ospite del campo. È lui ad introdurre le prime immagini e a condurre chi guarda nel mondo di Camp Jened. La narrazione lo seguirà fino alla conclusione, ampliando la risonanza delle testimonianze ad altri protagonisti, voci ricorrenti all’interno della sceneggiatura. Ann, Denise, Steve, Nanci, e Judy Heumann, che da counselor nel campo diventa attivista in prima linea e poi presidente di Disabled in Action. L’affermazione della profonda esigenza di cambiamento mette in moto un fronte unito che dai primi anni ’70 inizia a manifestare con cortei e richieste ufficiali per l’approvazione della Sezione 504 del Rehabilitation Act, al fine di garantire alle persone con disabilità determinati diritti. Tra questi anche quelli relativi all’istruzione.

La narrazione documentaria, avvalendosi di interviste e materiali di repertorio, passa per l’occupazione del Ministero della Salute di San Francisco di 25 giorni da parte un gruppo di disabili al ritorno al campo dove tutto era iniziato.

La valutazione degli obiettivi raggiunti e le considerazioni di un presente ancora incompleto rivelano una gara non ancora portata a termine, ma stavolta con la consapevolezza di potercela fare. Superare le diversità significa ascoltare attentamente voci che fanno fatica ad affermarsi. E modificare il proprio sguardo spesso troppo condizionato è possibile grazie ad opere come Crip Camp.

Silvia Pezzopane
Ho una passione smodata per i film in grado di cambiare la mia prospettiva, oltre ad una laurea al DAMS e un’intermittente frequentazione dei set in veste di costumista. Mi piace stare nel mezzo perché la teoria non esclude la pratica, e il cinema nella sua interezza merita un’occasione per emozionarci. Per questo credo fermamente che non abbia senso dividersi tra Il Settimo Sigillo e Dirty Dancing: tutto è danza, tutto è movimento. Amo le commedie romantiche anni ’90, il filone Queer, la poetica della cinematografia tedesca negli anni del muro. Sono attratta dalle dinamiche di genere nella narrazione, dal conflitto interiore che diventa scontro per immagini, dalle nuove frontiere scientifiche applicate all'intrattenimento. È fondamentale mostrare, e scriverne, ogni giorno come fosse una battaglia.