Ossia perché oggi l’ironia di Jamie Foxx e Samuel L. Jackson non giustifica più la prospettiva del regista
Django Unchained è forse uno dei pochi film di Tarantino che rivedrei volentieri in ogni momento, insieme a C’era una volta a… Hollywood. Già questo fa capire che, pur stimandolo come autore, non sono una sostenitrice purista della sua poetica e del suo stile. Django comunque è qualcosa di diverso. Il tempo (dal 2012 a oggi) non scalfisce la particolare ironia di Jamie Foxx né gli stupendi campi lunghi, da novello western, costruiti da Robert Richardson (il DOP).
C’è un aspetto, però, che deve essere preso in considerazione per un’analisi completa del film e che ha a che fare con “l’egocentrismo” del regista. Come si nota infatti anche dai suoi stessi interventi, Tarantino fa cinema solo per se stesso, su ciò che piace a lui e ciò che un pubblico, sempre simile a lui, è in grado di interpretare senza troppe mediazioni. Ossia un pubblico bianco, maschile e occidentale. Non pensa al cinema come veicolo di modelli di pensiero e rappresentazione di una collettività, ma solo di una singolarità: la sua.
E questo va benissimo, non toglie valore ai suoi film in quanto espressione artistica, ma certo li limita, nel senso che rende necessarie alcune precisazioni.
Django Unchained e l’azzardo della schiavitù a Hollywood
C’è una cosa che nel cinema contemporaneo un regista statunitense bianco dovrebbe assolutamente evitare: rappresentare la schiavitù. Hollywood non è mai stata capace di farlo (no, nemmeno con 12 anni schiavo, e lì il regista è nero e inglese). La rappresentazione cinematografica è sempre edulcorata, irreale o che peggio riversano tutto il male su schiavisti folli e demoniaci, estremi nell’estremo: Fassbender in 12 anni schiavo o Paul Dano in questo stesso Django. La schiavitù però non era opera di singoli folli e crudeli. Era un sistema economico, radicato e perfettamente accettato dai proprietari terrieri. Non dai deportati africani, ovvio, eppure Hollywood non sa – o meglio non vuole – rappresentare nemmeno una cosa così ovvia come l’opposizione degli oppressi.
L’idea che gli schiavi africani fossero totalmente assuefatti alla sofferenza e alla vita in cattività è un pregiudizio comune nell’America bianca, o anche un modo per espiare la colpa. Purtroppo i mass media lo rafforzano continuamente mostrando ancora la pigrizia e l’inerzia come caratteristiche intrinseche dell’identità sociale afroamericana. La Storia, al contrario, testimonia continue lotte, tentativi di fuga e di ribellione costantemente ignorati nell’immaginario comune.
Tarantino commette entrambi questi errori. Innanzitutto nemmeno lui è in grado di rappresentare la realtà della schiavitù, perché sarebbe insostenibile per qualsiasi spettatore. Decide allora di azzardare con la caricatura, con l’esagerazione e l’umorismo grottesco. È evidente nelle sparatorie che coinvolgono Jamie Foxx, anche molto divertenti in realtà. Ma la vera violenza sta ai margini del film: nei cani che divorano un uomo o nei Mandingos che si uccidono a mani nude.
In secondo luogo il regista rappresenta tutti gli schiavi come automi privi di volontà e di anima. Bambole di pezza che si trascinano nel mondo aspettando di morire. Tutti tranne Django, chiaramente, perché lui deve essere l’eccezione, il nero a cavallo, l’Eroe che deve completare il suo viaggio narrativo e in cui il pubblico tarantiniano può identificarsi. A ben vedere, però, Django è plasmato dal suo mentore, il Dr Schultz (Christoph Waltz). È un personaggio quasi colorblind nel senso che della sua identità di ex schiavo, di uomo africano, non si sa nulla. È come se rinascesse immacolato dopo l’incontro con Schultz. Della sua vecchia vita rimane solo l’amore per la moglie (Kerry Washington) e un ardente desiderio di vendetta, che muove tutto il film.
La questione è che il personaggio di Django viene reso deliberatamente più digeribile a un pubblico generalista e inserito nelle logiche del mainstream. Il suo scopo è quello di intrattenere, non far pensare o far riflettere sulla Storia o sull’assenza di riconciliazione con i traumi del passato. Oggi, tuttavia, un film del genere rischia proprio per questo di essere rifiutato dal pubblico – afroamericano in questo caso – che non solo si sente frainteso ma potrebbe persino offendersi (come ha fatto Spike Lee, boicottando il film). Ed è una problematica reale, seria e crescente, da non banalizzare come politically correct, perché noi siamo ciò che vediamo. Costruiamo la nostra visione del mondo anche attraverso i film, perciò è fondamentale che impariamo anche a leggere criticamente le immagini e le prospettive che essi ci creano intorno. E questo non significa necessariamente rifiutarle, ma almeno riconoscerle.