Insomma, Don’t Look Up è uno dei grandi film del 2021 (e del 2022, a questo punto) o una grossa bolla di sapone riempita di divi? Se dovessimo scegliere tra le due, diremmo senz’altro la prima. E però questa polarizzazione nel dibattito intorno al film ci dà un indizio su ciò che lo rende davvero interessante. Il terzo lungometraggio di Adam McKay, infatti, può dar fastidio. Perché infila il coltello nella crosta di un pianeta in crisi, condannato non dai capricci della natura ma dalle scelte di chi lo abita. Perché ci mette di fronte (neanche troppo) allegoricamente alle emergenze climatiche, sanitarie, sociopolitiche del nostro tempo. Ma non è tanto e solo questo, il punto.
Il punto è che Don’t Look Up ci parla (anche) di questo con i toni e i mezzi di una commedia grottesca. Giacché il vero oggetto del film non è l’evento di cui si narra ma i meccanismi paradossali della sua comunicazione. Della nostra comunicazione, quella che trasforma la menzogna in verità, il dubbio in paranoia, il superfluo in prioritario. La tragedia in farsa. Ed è questo, forse, che lo rende così proficuamente urticante. Tanto, forse, da far sentire (inconsciamente?) il bisogno di ridimensionarlo, di circoscriverne e disinnescarne la portata e la riuscita. Come faremmo con un sogno che ci ha ricordato le (reali) miserie di quando siamo svegli.
La fine del mondo? «Non drammatizziamo»
La notizia è: tra sei mesi e quattordici giorni una cometa si abbatterà sulla Terra. Ed è grande abbastanza (circa 10 chilometri di diametro) da cancellare la vita sul pianeta. Ma Adam McKay (regista e sceneggiatore con David Sirota) fa col disaster movie ciò che nel precedente Vice aveva fatto col biopic. Non una semplice parodia, ma una decostruzione, e insieme una prosecuzione del discorso sull’America e sul mondo contemporanei iniziato nell’esordio La grande scommessa. In quest’ultimo il terreno d’elezione (ed esplosione) era la finanza, in Vice la politica, in Don’t Look Up i media. In tutti e tre, a regnare, è la stupidità. Quella dei pesci che non solo fanno di tutto per essere divorati dagli squali, ma li eleggono a re dell’acquario.
O viceré, come nel caso del Dick Cheney/Christian Bale di Vice, il cui potere, più che sull’eccezionalità dell’uomo, si fondava appunto sull’assurdità del sistema, di cui la (dis)informazione tossica era già una componente fondamentale. E in fondo nemmeno la cometa di Don’t Look Up sarebbe una minaccia così insormontabile. C’è un piano predisposto per simili eventualità, e una volta tanto le armi nucleari potrebbero servire a qualcosa di buono. Peccato che la Presidente degli Stati Uniti Meryl Streep e il figlio-capo di gabinetto Jonah Hill optino per «attendere e accertarsi», anziché agire. «Non drammatizziamo», in ogni caso: di fronte alle elezioni di medio termine, l’imminente fine del mondo può aspettare.
Alla dottoranda Jennifer Lawrence e al docente Leonardo DiCaprio (che hanno scoperto la cometa), col funzionario Rob Morgan, non resta che rivolgersi all’opinione pubblica. Ma al Daily Rip, il programma d’informazione più seguito del Paese, l’imperativo dei conduttori Cate Blanchett e Tyler Perry è quello di alleggerire. Anche, e soprattutto, l’arrivo dell’apocalisse. Che comunque non è in primo piano nella scaletta (e di tendenza sui social) come la situazione sentimentale della popstar del momento (Ariana Grande).
Senza contare che il plutocrate Mark Rylance, proprietario della multinazionale di avveniristici smartphone Bash e vero imperatore (non solo) d’America, vede nella cometa straordinarie opportunità economiche. Dati i minerali che porta con sé, meglio sfruttarla anziché distruggerla. Poco importa se per farlo bisogna affidarsi a un piano fondato più sulle quotazioni di borsa che sui dati scientifici. E quando il corpo celeste inizia a farsi visibile nel cielo a occhio nudo, tutto sta nel convincere il popolo che non c’è nulla da temere. Lo slogan? “Dont’ look up”, non guardare in alto. L’estinzione del genere umano, a ben vedere, è un fatto di comunicazione. E di stupidità.
Il disaster movie (e il cinema) al tempo della post-verità
La caratterizzazione sopra le righe dei personaggi di Lawrence e DiCaprio ne sottolinea l’essere fuori posto. E, soprattutto, “fuori genere”, con la loro pretesa di prendersi sul serio nel Carnevale pre-apocalittico. Il peccato originale è, di nuovo, non saper fronteggiare il vero nemico-amico, la comunicazione. Il loro stesso linguaggio di formule e probabilità viene usato per ribaltarne perversamente gli assunti. L’alternativa che si materializza per i due, sconfortante, è tra la rassegnazione e il compromesso, entrambi votati al fallimento.
La domanda allora è: come può reggersi un disaster movie dove la posta non è tanto scongiurare il disastro ma dimostrare (o negare) che stia arrivando? È proprio su questa premessa che si fonda la rottura dei codici del film catastrofico in Don’t Look Up. Figlio più del kubrickiano Dottor Stranamore che di Independence Day o Armageddon. Anche nel suo essere orfano di eroi propriamente detti. Se il militare razzista e omofobo Ron Perlman è la satira più diretta dei salvatori della patria umana dalle minacce extraterrestri, gli stessi fautori della verità scientifica non brillano sino in fondo.
Un ribaltamento del genere che si traduce (anche) in una scrittura filmica che rompe gli argini spazio-temporali e soprattutto estetici. Tra accostamenti sincopati di frammenti, ralenti e fermoimmagine. A restituire il caos imbelle non tanto della realtà ma del suo darsi e smembrarsi come oggetto di rappresentazione. E, in questo, Don’t Look Up pare riflettere, ironicamente, sul depotenziamento del cinema nell’ecosistema mediatico odierno, anche attraverso il sovraffollamento di star. Di fronte a una cronaca diventata incubo tragicomico di pseudo-verità, i sogni della fabbrica hollywoodiana deflagrano, si disgregano. Impossibilitati, come i loro divi, a imporsi e a fare presa sulle masse per più di qualche ora, o comunque a sottrarsi alle regole del gioco che vuole tutto caricatura di se stesso. Emblematico il cortocircuito innescato dal divo ecologista DiCaprio, nei panni di un imperfetto idealista che il circo della catastrofe ribattezza «Astronomer I’d Like to Fuck».
Cosa resta, dunque? Solo riunirsi per un’ultima tavolata con gli affetti e i compagni di lotta, mentre il mondo intorno si consuma? Chissà. Stavolta comunque McKay, tutt’altro che cinico nel suo lucido pessimismo, sembra tirare le somme sulla crisi dell’impero american-occidentale focalizzata nei suoi tre film. E, al netto degli sberleffi post-credits, chiude mostrandoci con nitore inedito il bisogno (e la pur remota possibilità) di una società e del suo immaginario di ritrovarsi. Di prendere atto della crisi, nelle sue reali cause e potenziali (o fattuali) conseguenze. Per non estinguersi. O, almeno, per sfuggire agli algoritmi dell’idiozia dominante.
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