Venezia 80. El Conde, Pablo Larraín
Venezia 80. El Conde, Pablo Larraín

Premiato per la migliore sceneggiatura a Venezia 80, El Conde è il biopic “di genere” diretto (e sceneggiato con Guillermo Calderón) dal regista cileno Pablo Larraín. Qualcosa di molto diverso da Jackie (2016), o Spencer (2021), un’opera biografica che non si ferma al racconto della vita del personaggio ma va oltre, fornendo una chiara interpretazione, seppure paranormale e molto comica, dei fatti storici che hanno cambiato il Cile, volgendo poi lo sguardo ad una malefica e preoccupante ipotesi per il futuro. Il futuro di vampiri assetati di sangue e potere, ma anche quello di tutti gli altri.

Non più documentario ma horror

In No – I giorni dell’arcobaleno (2012), Larraín sovrappone immagini di repertorio e scene girate, nelle prime intravediamo Augusto Pinochet, il generale, politico, dittatore cileno, che governò il suo paese dal 1973, dopo il colpo di Stato in Cile, al 1990. Il film del 2012 si concentra sulla campagna di referendum contro di lui del 1988.

Completamente opposto lo sguardo che sceglie per El Conde, in cui si stacca dalla narrazione della storia per come tutti l’hanno vista (e subita) per trovare in un altro tipo di rappresentazione la chiave di lettura della tragica dittatura di Pinochet: nel film il generale (Jaime Vadell) non è morto realmente nel 2006 ma è un vampiro di 250 anni che si è ritirato ormai in una villa in Patagonia per smettere di nutrirsi di sangue umano e lasciarsi morire. Ma dopo aver vissuto una vita di frullati di cuori umani, crudeltà efferata e spietata sete di potere.

Come in un film di Monicelli però, la sua prole corre ai ripari quando al vecchio padre torna apparentemente la voglia di uccidere, tutto per toglierlo da mezzo (insegnamento che ha attecchito efficacemente nella loro educazione) e spartirsi ciò che rimane dei vecchi fasti del comando del Paese. La donna che mandano da lui, la suora Carmencita (Paula Luchsinger), così emblematicamente simile alla Giovanna d’Arco di Dreyer interpretata da Renée Falconetti, deve conquistarsi la sua fiducia fingendo di essere una contabile mandata a sistemare tutti i loro averi.

La voce della narratrice, con un peculiare accento che sarà chiaro solo nel finale, conduce la storia in quella che è una commedia degli equivoci di genere, non unicamente horror, bensì politico, come solo Larraín riesce a fare.

Illustrazione a cura di Andrea Cappelli (https://www.instagram.com/carnaccio_)

Il vampiro di Larraín

Definita da un’affascinante ricerca visiva, la caratterizzazione della figura del vampiro si rifà ad una rappresentazione cinematografica retrò, accentuata dalla scelta del bianco e nero. Il vampiro di Larraín si erge lento, parte di tempi andati, non quelli della dittatura ma ancora precedenti, durante la Rivoluzione francese. Da secoli trascina il suo corpo pesante alla ricerca di nuova vita da succhiare, ma ha applicato un po’ troppo fedelmente il concetto anche alla società che ha dissanguato, spezzato, con la leggerezza crudele di un essere non umano.

Al suo seguito un servitore con qualche problema di fedeltà, il maggiordomo russo Fëdor (un magnifico Alfredo Castro), non un Renfield servile bensì un neo vampiro che in vita addestrava gli squadroni della morte e che ora ha una promiscua relazione con la moglie del generale (Gloria Münchmeyer) e al posto dei canini due denti curvi e frontali, perturbanti come quelli del vampiro di Salem’s Lot (1979).

Se gli inganni a danno di Pinochet potranno suscitare anche una stranissima tenerezza nei suoi confronti, il sentimento durerà pochissimo, il regista instilla con questa inquietante commedia nera il dubbio sul futuro, la paura del male, perpetrato senza confini e che non vediamo finché è ormai troppo tardi. SPOILER Il colore nel film arriva proprio quando tutto si fa più spaventoso, nel finale in cui Pinochet sceglie, insieme alla sua mamma “speciale” ritrovata, di rivivere da capo, di ricominciare da bambino, donando una terribile previsione per ciò che verrà.

Il messaggio de El Conde è che vampiri e dittatori proliferano ovunque, crescono dall’aspetto innocente ma sognano solo sangue e controllo, imperano eterni senza possibilità di essere estirpati, e sono più di quanti crediamo.

El Conde. Jaime Vadell in El Conde. Cr. Pablo Larrain / Netflix © 2023

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Silvia Pezzopane
Ho una passione smodata per i film in grado di cambiare la mia prospettiva, oltre ad una laurea al DAMS e un’intermittente frequentazione dei set in veste di costumista. Mi piace stare nel mezzo perché la teoria non esclude la pratica, e il cinema nella sua interezza merita un’occasione per emozionarci. Per questo credo fermamente che non abbia senso dividersi tra Il Settimo Sigillo e Dirty Dancing: tutto è danza, tutto è movimento. Amo le commedie romantiche anni ’90, il filone Queer, la poetica della cinematografia tedesca negli anni del muro. Sono attratta dalle dinamiche di genere nella narrazione, dal conflitto interiore che diventa scontro per immagini, dalle nuove frontiere scientifiche applicate all'intrattenimento. È fondamentale mostrare, e scriverne, ogni giorno come fosse una battaglia.

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