Presentato in anteprima in concorso al 76° festival di Cannes, dove ha vinto il Premio della giuria, ha debuttato nelle sale italiane il 21 dicembre Foglie al vento del regista finlandese Aki Kaurismäki. Ritratto realistico del proletariato contemporaneo, crudo ma anche molto dolce, il film viaggia su una rotta cinefila fatta di citazioni più o meno evidenti, in cui però viene inoculata un’ironia che si alimenta dell’intreccio stesso del film.
Con gli occhi di Bresson
Ansa (Alma Pöysti, candidata ai Golden Globes 2024) è una donna di mezza età in cerca di un impiego per mantenersi. Holappa (Jussi Vatanen) è un operaio alcolizzato che a causa del suo vizio incontra numerosi problemi sociali e lavorativi. È da queste due anime che si sfiorano, si incontrano e infine cercano di stringersi l’una all’altra che il regista riprende in mano, a distanza di 33 anni, la sua trilogia sul proletariato di fine anni ‘80.
La dimensione bressoniana di questo e dei precedenti lavori, in cui le battute vengono semplicemente pronunciate dagli attori e gli eventi non trovano un accordo emotivo con i personaggi che li vivono, si arricchisce di una cinefilia che accompagna la trama e l’estetica del film.
Di fronte a Foglie al vento si avverte sia il peso delle scelte formali (una recitazione spiazzante e un’estetica cinefila) che il loro potenziale espressivo.
Robert Bresson voleva che lo spettatore, conscio delle emozioni che certi sviluppi dovrebbero suscitare, caricasse di un colore emotivo personale le “inerti” battute degli interpreti dei suoi film: nel rendere una frase neutra, fondamentale era l’impressione, la percezione soggettiva che lo spettatore aveva del contenuto verbale.
Tenendo costantemente lo spettatore vigile sulle emozioni dei personaggi, e sul film che viene citato mediante una battuta, una luce particolare o un poster, Kaurismaki confeziona un’opera per il cinema e per la speranza che può dare alla gente. Non per niente l’ironia genuina dell’intreccio accende infine un radioso sorriso di gioia sul volto di Ansa.
Questi due aspetti contribuiscono a generare un senso di infinità della narrazione: il regista sfrutta la breve durata del film per formalizzare invece la “temporalità” e la “potenzialità” del narrato e del rappresentato, che sembrano infine abbracciare tutta la storia del cinema.
Il colore cinefilo e oggettuale
I cromatismi accesi brillano di rimandi cinematografici e focalizzano lo spettatore sui dettagli oggettuali: da essi si ricava il tempo della vicenda e contemporaneamente un senso di arretratezza, di destabilizzazione cronologica.
Siamo alle soglie del 2024, lo vediamo a un certo punto da un grande calendario, e arrivano continuamente notizie sull’aggressione russa all’Ucraina (tema che sembra già essere sparito dai nostri social e notiziari), ma da una vecchia radio di Ansa: il periodo storico è evidente, e nel contempo capiamo che i nostri protagonisti sono “nativi non digitali”, relitti di un passato che per loro è scomparso troppo presto (guardate i pannelli e la pattumiera della casa di Ansa!).
Ancora una volta la puntualità e la sospensione avvolgono le percezioni dello spettatore.
Agghiacciante, per crudezza e realismo, la scena in cui Ansa cerca le offerte di lavoro su un computer in un Internet Cafè, oggetto e utilizzo che può permettersi solo per la carità del commesso.
Ma l’uso espressivo e quasi feroce del colore ci catapulta anche tra le pieghe del grande cinema europeo, in particolare tra le opere del Nuovo Cinema Tedesco e il cinema francese post-Nouvelle Vague. Emergono rimandi visivi a Paris, Texas (Wenders, 1984) e a Il matrimonio di Maria Braun (Fassbinder, 1978), ma anche a Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles (Akerman, 1975) e a La Cinese (Godard, 1967).
Foglie al vento è un film cinefilo, metacinematrografico. La sua è una lettura stratificata che emerge superficialmente a livello citazionistico e più profondamente a livello scenografico, percettivo.
Binario di una storia
Il film viaggia su delle marcate opposizioni che però finiscono col fondersi e non disturbare l’esperienza visiva. Siamo in un preciso momento storico e nel contempo ci sembra di essere in molte altre epoche; siamo in una storia d’amore che però è quasi priva di uno spettro emotivo forte e/o melodrammatico; siamo in un ritratto sociale e politico di profonda denuncia e contemporaneamente siamo catturati dal gioco citazionistico messo in piedi dal regista.
Tramite dei poster vengono citati: Il bandito delle 11 (Pierrot Le Fou, Godard, 1965), Il clan dei siciliani (Verneuil, 1969), L’argent (Bresson, 1983), Rocco e i suoi fratelli (Visconti, 1960). Verbalmente invece Il diario di un curato di campagna (Bresson, 1951) e Bande à Part (Godard, 1964).
Eppure la narrazione della contemporaneità, acre e cruda, procede indisturbata e alleggerita costantemente dalle citazioni e dalle battute interne al film: la recitazione bressoniana accende l’umorismo in certe scene.
Il film tiene dunque fede al suo genere di commedia romantica, diventando però anche un’opera di una profondità abissale, ricca di spunti riflessivi e di memorie eleganti (legate al cinema) e tristi (legate alla situazione storica e sociale attuale).
Ottantuno minuti di amore
Foglie al vento potrebbe non essere un film per tutti, perché l’ironia è talvolta accesa proprio dalla cinefilia genuina che emerge dall’opera.
Per uno spettatore non cinefilo è tra il risibile e il noioso, ma per un amante passionale della settima arte è come un battesimo di rinnovato amore per questa meravigliosa fabbrica di sogni.