Le grandi storie trovano sempre un modo per parlare al presente, è così che Il colore viola trova nella nuova veste firmata da Blitz Bazawule la forma per arrivare a un pubblico sempre più ampio e ancora inedito. Dopo il best seller del premio Pulitzer Alice Walker (1982) e dopo il film diretto da Steven Spielberg (1985), si fa spazio un linguaggio ancora diverso, quello del film musicale, ispirato a una pre-esistente versione di Broadway.
Subentra così una diversa visone, un diverso scopo. Prevale su tutto il valore della la sorellanza, che non cancella ma porta sicuramente sullo sfondo la tragedia originale, quella di una donna distrutta dalla vita, Celie, che faticosamente crea il suo spazio nel mondo e raggiunge la sua libertà.
Proviamo a darvi almeno 4 motivi (più una quinta, piccola, considerazione critica) per non perdere il film al cinema, dall’8 febbraio in sala con Warner Bros.
1. Il colore viola dal libro al film: un adattamento intelligente
Non serve ribadire per l’ennesima volta che letteratura e cinema sono due mezzi diversi e che paragonare la pagina scritta all’immagine ha poco senso. Il colore viola di Blitz Bazawule, tuttavia, essendo tratto dall’omonimo musical e non direttamente dal romanzo di Alice Walker, adatta con intelligenza la trama, rendendola più lineare possibile. Sparisce del tutto la struttura epistolare del romanzo, quella attraverso cui Celie (Phylicia Pearl Mpasi/Fantasia Barrino) scrive a Dio, al mondo e a se stessa. Svanisce tutta la controparte della sorella di Celie, Nettie (Hailey Barry/Ciara), soprattutto quella ambientata in Africa. E proprio per questo la trama, in generale, subisce degli aggiustamenti significativi ma quasi sempre necessari e giustificati, in funzione di un film quanto più unitario possibile, nello spazio e nell’azione.
A cambiare radicalmente, invece, è il linguaggio usato, a partire dall’evidente assenza di una battuta molto celebre dell’opera originale. Quel “come sei brutta”, detto da Shug Avery a Celie. Una scelta consapevole, nell’ottica di una storia che vuole enfatizzare il ruolo e la bellezza delle donne soprattutto quando agiscono insieme. Sono tutte donne nere, ovviamente, le protagoniste de Il colore viola, e questo radica ancora di più il messaggio in un’ottica politica e culturale: black is beautiful non è mai stato solo uno slogan, ma una rivendicazione.
2. Broadway sullo schermo
Dal palco di Broadway al grande schermo, Blitz Bazawule non solo ha portato il cast teatrale (da Fantasia Barrino a Danielle Brooks) nel nuovo adattamento, ma ha compiuto una scelta di regia radicale. Tutti i numeri musicali fanno parte di una dimensione altra al film. Sono elementi di messa in scena chiusi e finiti, che esistono in parallelo alla trama, in uno spazio al tempo stesso identico ed estraneo al resto della storia. Lo spazio del sogno e dell’immaginazione.
Ogni canzone è l’espressione del mondo interiore dei personaggi, perciò non c’è da stupirsi se all’improvviso compare un grammofono gigante o se tutti i performer, cantando e ballando, rompono la quarta parete e per qualche attimo indirizzano lo sguardo al pubblico. Quello è uno spazio intermedio, da abitare soltanto con le emozioni.
3. La regia di Blitz Bazawule
Blitz Bazawule è molto probabilmente un nome poco familiare a gran parte del pubblico italiano. Se però seguite FRAMED già da qualche anno, vi sarà capitato di leggere qualcosa su Black is King, il visual album di Beyoncé ispirato liberamente a Il re leone, con le musiche originali del live action Disney del 2019. Tra i co-registi della star figura proprio Bazawule, che oltre a essere un visual artist e filmmaker è anche un rapper e musicista. Il legame tra immagini e musica è perciò qualcosa che accompagna già da tempo la sua carriera.
Come in Black is King, anche in Il colore viola Bazawule sperimenta con dei quadri visionari, usando colori forti e saturi, luci e ombre decisissime, visioni oniriche tra realtà e surrealtà. Attinge a immagini e visioni già familiari, già “cinematografiche” e preesistenti ma le rielabora in forme e volumi nuovi, che sorprendono di scena in scena.
4. Danielle Brooks, la nuova Sofia de Il colore viola
Il ruolo che circa 40 anni fa è stato di Oprah Winfrey rivive quest’anno nel corpo e nella voce di Danielle Brooks. Ogni donna ne Il colore viola è diversa. Celie, la protagonista, è traumatizzata, pavida, repressa nelle emozioni, assoggettata al potere maschile ma incapace idi comprendere qualsiasi uomo. Shug Avery è emancipata, economicamente e sessualmente, a tratti libera ma in realtà assoggettata sempre al bisogno di amore, attenzione e cure. Nettie è consapevole tanto della sua bellezza quanto della sua intelligenza. È coraggiosa e il suo coraggio le permette di lasciare l’ambiente in cui è cresciuta per proteggere se stessa. Sofia, infine, è l’unica fra tutte davvero libera. Traumatizzata fino a risvolti tragici, ma l’unica davvero libera. Solo l’intervento violento degli uomini (e delle donne) bianchi spezza il suo spirito e la sua forza, ma mai del tutto.
Il modo in cui Danielle Brooks le dà forma resta uno degli aspetti migliori e ppiù emozionanti del film. Non a caso è sua l’unica nomination agli Oscar 2024 per un film da cui, nella stagione dei premi ci si aspettava molto di più.
5. Il nuovo colore viola e ciò che si perde della storia originale
Che l’adattamento sia molto intelligente e ben fatto l’abbiamo detto come primo motivo per non perdere Il colore viola. Tuttavia, ci sono aspetti del film che lasciano con un po’ di amaro in bocca, senza nulla togliere alla riuscita generale. Nel tentativo di raccontare la storia di affermazione e progressiva autoconsapevolezza di Celie si perdono dei passaggi importanti del suo carattere, soprattutto nella scelta di non dare a lei la voce narrante, attraverso le sue lettere.
Molte delle cose che Celie raccontava nelle sue lettere a Dio vengono affidate alle canzoni. Si perde, prima di tutto, il suo lento e progressivo innamoramento, ricambiato, per Shug Avery (Taraji P. Henson), sintetizzato solo in un brano e in qualche dialogo. E si perde anche l’affermazione del suo stesso orientamento sessuale. Il colore viola è una storia queer, una delle più belle e importanti del secolo scorso, ma inspiegabilmente non si racconta nel film con la stessa potenza che oltre 40 anni fa aveva nel romanzo.
Allo stesso modo, ogni altra forte emozione sembra annacquata in funzione di un disegno diverso, di una costruzione diversa della storia di Celie. L’amore, prima, e la rabbia, poi, sono i due motori che risvegliano le emozioni della protagonista, eppure soprattutto la furia della collera viene esclusa dal film di Bazawule, volontariamente. L‘adattamento vuole essere una festa gioiosa, una celebrazione della sorellanza, della femminilità, dell’esperienza femminile nera. La rabbia – stereotipata, vista fin troppe volte al cinema e in altre rappresentazioni dell’identità nera – qui non trova spazio.
Spoiler Alert – Così quel gesto che Celie compie per non uccidere il marito (Colman Domingo) nel momento emotivamente più intenso della storia di Alice Walker, quella scelta di mettersi a cucire un pantalone per infilzare un ago nel tessuto e non una lama nella sua carne, si trasforma in un gesto molto più razionale. Diventa la decisione consapevole di costruirsi un futuro libero e indipendente attraverso un mestiere. Celie la sarta, tuttavia, perde qualcosa in intensità in questo passaggio dalla carta al grande schermo. Ed è l’unico vero difetto del film.
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