A neanche mezz’ora dall’inizio del film d’animazione Pinocchio diretto da Guillermo Del Toro con Mark Gustafson (qui la nostra recensione), il burattino, in una delle sue prime, gioiose “disubbidienze” esce di casa per raggiungere il babbo nella chiesa del paese. Un campo lungo ci mostra il protagonista che attraversa, entusiasta e dinoccolato, una via del piccolo centro. A sovrastarlo, tracciate sulla facciata di una casa, un’effigie mussoliniana in elmetto e le parole d’ordine dell’ideologia fascista «credere, obbedire, combattere». È l’immagine che prima e meglio di tutte ci mostra l’operazione compiuta dal cineasta messicano sul testo di Carlo Collodi (pubblicato per la prima volta nel 1883), spostato nell’Italia del Ventennio e riletto in chiave squisitamente politica.
Ed è senz’altro uno degli aspetti più significativi di questa nuova trasposizione del celebre romanzo. Una rivisitazione perfettamente coerente con la poetica del regista de Il labirinto del fauno, ma anche il punto d’arrivo di una tradizione di reinterpretazioni dell’opera originaria che ne hanno, da un lato, rimaneggiato sino al ribaltamento la pedagogia, e dall’altro, liberato i tratti di allegoria satirica, in forma favolistica, di una società che, neanche a dirlo, dal suo dato momento storico riverbera il suo potenziale critico sul nostro presente.
Favole e fiabe, burattini e ragazzini perbene
Tra le molte e fertili ambiguità strutturali che un testo come Le avventure di Pinocchio presenta e porta con sé nelle varie trasposizioni, c’è sicuramente quella tra fiaba e favola. L’una e l’altra, spesso considerate sinonimi, sono in realtà due generi diversi, dove la prima ci porta tradizionalmente in un mondo altro o comunque visitato dal soprannaturale. L’altra, se risaliamo quantomeno ai testi di Esopo e poi di Fedro, è finalizzata a trasmettere insegnamenti morali e si mantiene, al netto delle apparenze, saldamente ancorata alle leggi, spesso crudeli, della natura e della realtà comunemente intese. Il lupo e l’agnello esopici vengono fatti parlare solo per meglio ribadire l’immutabile gerarchia tra l’uno e l’altro, tra la vittima e il carnefice. Nessun intervento magico o metafisico potrà cambiare le cose.
Il Pinocchio di Collodi è, a ben vedere, sia una fiaba che una favola. Il magico è presente ed è stata una delle componenti più enfatizzate negli adattamenti (pensiamo solo a quello disneyano), tra fate e metamorfosi di ragazzini in asini. Ma è più spesso la logica della favola a prendersi la scena, almeno sulla pagina scritta. Il burattino parlante serve essenzialmente a parlarci di una società molto concreta in cui è calato e del ruolo che dovrà assumere all’interno di essa.
In modo molto poco magico, il protagonista viene derubato, impiccato, truffato, incarcerato ingiustamente, amnistiato, accusato di furto da un coltivatore che lo costringe a fargli da cane. È maltrattato e rimproverato dagli adulti in carne e ossa ogni volta che domanda qualcosa da mangiare senza offrirsi in cambio come manodopera da sfruttare. La sua è un’educazione ai valori, brutali, di un’Italia contadina povera dove l’universalità dei diritti (anche dell’infanzia) è un concetto assente sul piano teorico e pratico. E l’unico riscatto sociale sta nel lavoro, dentro e fuori le aule scolastiche, per diventare un «ragazzino perbene» (come si autoproclama alla fine il personaggio) perfettamente allineato ai dettami di laboriosità, parsimonia, rispetto degli affetti familiari e ubbidienza alle autorità del contesto in cui vive.
Ma la ricchezza espressiva con cui la favola di Pinocchio veicola la sua morale ha fatto sì che le sue presenze e situazioni allegoriche servissero nel tempo sensibilità e discorsi sociali diversi, quando non opposti. Pensiamo, tra i tanti esempi possibili nella nostra cultura pop, allo sceneggiato Rai (1972) di Luigi Comencini (e Suso Cecchi D’Amico). Siamo nella tv a tutela democristiana, è vero, ma anche nel post-Sessantotto. E così la trasformazione finale del burattino in bambino “vero” non è più un premio alla raggiunta probità ma la dismissione di una pedagogia punitiva sconfessata per bocca del Geppetto di Nino Manfredi.
Nell’album Burattino senza fili (1977) di Edoardo Bennato, i presupposti ideologici del romanzo sono addirittura ribaltati in un elogio della marionetta anarchica contrapposta al ragazzino in carne ed ossa ormai integratosi nel vuoto razionalismo di una società conformista, sessista, guerrafondaia. Persino le riletture meno fortunate del libro, come quelle cinematografiche di Francesco Nuti (OcchioPinocchio, 1994) e Roberto Benigni (Pinocchio, 2002) riflettono comunque un mutato paradigma storico-culturale. Mostrandoci un protagonista che sceglie di fuggire dall’educazione del babbo banchiere (in Nuti) o riservando una particolare simpatia al trasgressivo Lucignolo (in Benigni). Da oltre un secolo, insomma, parlare di Pinocchio significa parlare non solo della società che fu (e che è), ma di come cambia il nostro sguardo su di essa.
Una marionetta eversiva nell’Italia di Mussolini
Guillermo Del Toro non può che trovare terreno fertile nella dialettica di invenzione fantastica e adesione critica a coordinate storiche reali che è la cifra del romanzo di Collodi. In questo senso lo spostamento in avanti dell’ambientazione nel film Netflix funziona da potenziamento della rappresentazione di conformismi e oscurantismi già presenti nell’Italia postunitaria e che il fascismo esalta, facendone strumento di consenso e controllo politico.
Nel cinema del regista, non a caso, le dittature di destra sono l’espressione al massimo grado di pulsioni autoritarie che possiamo comunque ritrovare in altri contesti. Dagli USA dei perbenisti anni ’50 che depredavano (non solo allora) l’America Latina (La forma dell’acqua) al microcosmo dei luna-park che schiavizzano alcolisti nullatenenti (Nightmare Alley). Il lato oscuro dell’ordinamento sociale si misura in particolare nel trattamento che riserva a quanti considera diversi, irregolari, dissenzienti. Devianti. Come un burattino parlante nell’Italia di Mussolini.
Tanto il fascismo quanto la marionetta vivente, d’altronde, sono figli della medesima tragedia politica: la guerra, che causa la morte del piccolo Carlo, primo figlio del falegname vedovo Geppetto in questa trasposizione. Dalla catastrofe bellica deriva tanto l’involuzione totalitaria di un Paese all’insegna di nazionalismo, militarismo e irreggimentazione delle gerarchie sociali, quanto il suo opposto. Una nuova vita all’insegna della libera, spontanea, infantile messa in dubbio di ogni regola e convenzione.
Il Pinocchio di Del Toro è, inconsapevolmente, eversivo. Burocraticamente (una nascita non registrata, non classificata né classificabile), socialmente (il podestà inizialmente impone al babbo di mandarlo a scuola perché la sua mente sia «disciplinata») e persino religiosamente. «Piace proprio a tutti, lui. Cantavano tutti, per lui. Ed è fatto di legno. Perché tutti amano lui e non me?», domanda al babbo indicando il Crocefisso sopra di loro. Rimarcando inconsapevole le contraddizioni di una chiesa legata al potere politico, ma anche l’affinità col Gesù storico, altro illustre perseguitato e maledetto dalla legge (e dal clero) ufficiale.
L’unica possibile integrazione offerta dal sistema che marginalizza e ostracizza le differenze è quella tutta subordinata all’assimilazione socio-culturale e allo sfruttamento. Ecco allora che il podestà fascista scopre nel burattino virtualmente immortale il “soldato perfetto”. Da tradurre in un Paese dei Balocchi riconfigurato come campo di addestramento militare per minori (realizzazione plastica dello slogan “Libro e moschetto, fascista perfetto”). Dove allo stesso figlio del podestà, Lucignolo, viene imposto il viatico per la virilità di regime attraverso la violenza sul corpo “rigenerabile” di Pinocchio.
L’altra faccia del potere e la sua messa in crisi
Il tentativo di negare l’umanità e la libertà del bambino di legno da parte dell’ordine sociale ha un altro e non meno significativo volto. Il Conte Volpe, avido e cialtrone imprenditore del teatro di marionette che vuole fare di Pinocchio la sua (non retribuita) star, incarna la realtà economica del medesimo sistema di oppressione rappresentato dal regime mussoliniano. L’uno e l’altro solo apparentemente concorrenti nel volersi accaparrare l’esclusiva sul burattino, in realtà ben integrati e speculari. Lo evidenzia plasticamente la sequenza della visita di Mussolini (lui sì vero, grottesco pupazzo tra i pupazzi in stop-motion) allo spettacolo. Dove è la verve anarcoide di Pinocchio a rompere gli equilibri che rendono lo show-business funzionale al potere politico, con uno sberleffo carnevalesco che ridicolizza il duce e scatena la distruttiva ritorsione censoria.
Di più, Del Toro, rimaneggiando con assoluta libertà la figura del Mangiafuoco di Collodi, separa il burattinaio dal capitalista affidando il primo ruolo a un altro sottoposto sfruttato, la scimmia emblematicamente denominata “Spazzatura”, in un’ulteriore riduzione a oggetto (di scarto) della forza lavoro. La conversione di questo personaggio in alleato del protagonista nell’ultima parte del film è speculare all’emancipazione di Lucignolo dall’autorità paterna, e corrobora il portato rivoluzionario del burattino nel suo percorso di crescita.
Chiaramente, allora, non è più la marionetta a dover redimere se stessa guadagnandosi la mutazione-promozione in “ragazzino perbene”, ma il mondo che lo circonda a doversi redimere dai suoi pregiudizi e ingiustizie con l’aiuto del suo elemento più anomalo. Il quale, nella longevità che lo contraddistingue, si fa implicitamente anche depositario della memoria di quanto è stato, non solo nella sua parabola individuale e familiare, ma anche nella società che rischia (sempre) di dimenticare e restaurare le pagine più buie della sua Storia.
Come nell’Italia di oggi, che pare voler rafforzare a tutti i costi il cortocircuito tra la sua realtà e la favola di Del Toro. Tra massimi rappresentanti delle istituzioni che celebrano le proprie radici (neo)fasciste e ministri che rivalutano un’idea pedagogica basata su castigo e umiliazione. Dove i diritti sono subordinati al “merito” e la colpevolizzazione di chi (giovani e meno) non vuole sottostare a condizioni di lavoro inique e alienanti è all’ordine del giorno. D’altronde, il burattino senza fili del regista messicano proietta il suo potenziale allegorico ben oltre le miserie di casa nostra. Facendosi giocoso sabotatore di un intero modello sociale, lo stesso che ci sta portando ogni giorno di più sull’orlo del baratro.
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