L’amico di famiglia, uscito nelle sale il 10 novembre del 2006, è il terzo film di Paolo Sorrentino, un dramma che ci riporta nell’oblio inscalfibile della solitudine. L’opera ottiene tre nomination ai Premi David di Donatello e 4 nomination ai Nastri d’Argento, confermando così l’abilità e il successo crescente regista futuro premio Oscar.
La storia racconta di un orribile, solitario e viscido usuraio di nome Geremia de’Geremei (Giacomo Rizzo) che vive nell’Agro Pontino in una casa buia e fatiscente. La sua è una realtà squallida, il cui pilastro è una famiglia disfunzionale da cui emerge un rapporto tossico con la madre. A ciò si aggiunge la continua ossessione per il suo aspetto fisico che coincide con il suo lato morale; un vero e proprio concentrato dei mali dell’animo umano.
Sorrentino e il processo di “umanizzazione”
L’amico di famiglia ha lo scopo di andare oltre, al di là degli stereotipi etico-sociali. Ancora una volta, Paolo Sorrentino attua un processo di umanizzazione, compiendo un passo ulteriore, quello di rendere tollerabile l’orrido e il detestabile. Un vero gesto d’amore nei confronti del protagonista, reso umano nonostante la sua natura torbida e diabolica. Il regista continua così, con il terzo film, un cammino attraverso la desolazione e la solitudine, narrandole e rielaborandole. E a queste, si aggiungono il tormento e il ribrezzo, che lo stesso Geremia nutre per se stesso. Un autodisprezzo capace di tracciare un nesso armonico, che modella i tratti degli altri personaggi della storia, lasciati liberi di muoversi come soggetti di un quadro futurista.
Il piccolo usuraio è sporco, ripugnante e si insinua nelle famiglie alle quali concede prestiti in denaro, assumendo le vesti di un semplice “amico di famiglia” a cui si deve voler bene per obbligo e necessità.
Lui rappresenta una chiara anticipazione de “lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile”, citato nel monologo finale di Jep Gambardella (La grande bellezza, 2013), che vive tanto per vivere, nella piena disillusione dell’inesistente reciprocità dei sentimenti. Nonostante questo, il tocco sorrentiniano rimaneggia quell’animo subdolo, riservandogli una tenera assoluzione dai peccati mediante una delicata reinterpretazione dell’esistenza umana, che giustifica certe manifestazioni negative dell’io, che a loro volta fungono da riparo dai dolori della vita.
Sorrentino si immerge agilmente nell’abisso e nella complessità della coscienza, trovando un elemento di bellezza anche nella parte più cattiva e malvagia dell’uomo, riservando al pubblico un brandello di umanità, che viene celato sotto il manto dell’esteriorità e dell’apparenza.
Sono tutti come lui. Siamo tutti come Geremia
La sequenza finale profila un aspetto sopraffino, relativo al “limite” delle cose, delle azioni e dei sentimenti.
“Ci siamo dimenticati di dirci qual è il limite, perché c’è il limite papà. Ma io non lo conosco”, dice Geremia nelle ultime battute. Parole che redigono testamento sul confine estremo della moralità umana. La confessione del grottesco usuraio, sull’inconsapevolezza del “limite”, lo rende incolpevole, lo redime e lo scagiona, sollevandolo dalla condanna che lo collocherebbe immediatamente tra le fiamme dell’inferno.
È un finale perfetto, in piena coerenza con il pensiero di Paolo Sorrentino di voler far emergere la benevolenza e la meraviglia anche dagli animi più oscuri. Al suo interno c’è un concetto di universalità umana e compassione che consente al protagonista di non sentirsi solo, nonostante lui creda di esserlo.
La verità è che nessuno è cosciente dei limiti della vita e delle cose. In fondo sono tutti come lui. Siamo tutti come Geremia.
Siamo tutti perennemente in bilico tra lo “squallore disgraziato” e gli “sprazzi di bellezza” dell’anima.
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