La prima sensazione che dà Malcolm & Marie è quella di un ring: un corpo a corpo e un KO in sei round. Sei esplosioni di emozioni, progressivamente sempre più profonde. È inusuale, però, che non vi sia alcun climax fisico. È un confronto coraggioso, che trova la forza di scavarsi dolorosamente la via attraverso le parole, ma mai attraverso l’aggressione. Qualcosa a cui siamo tristemente poco abituati sul piccolo e sul grande schermo, come se mancasse la vera azione.
Come fa allora Sam Levinson a non trasformare tutto questo in un disastro, in materiale per due ore di film e non per venti minuti di cortometraggio? Semplice, con la sua straordinaria musa, Zendaya, e con il sempre più notevole John David Washington. Malcolm & Marie è tutto un lavoro di interpretazione, di intensità, di toni, di sguardi, urla e silenzi.
Una coppia e una notte trascorsa a rovesciarsi addosso amore e odio, a strapparsi metaforicamente strati di pelle, fino a rimanere esanimi e nudi, uno di fronte all’altra.
Non tutti hanno apprezzato la costruzione di questa storia, anteponendo visioni ideologiche alla forma del film. Per questo, prima di proseguire, consigliamo anche di leggere l’articolo complementare a questa recensione, l’analisi dettagliata: Malcolm & Marie – La forma del cinema contro l’ossessione per il contenuto.
I Forgot to Be Your Lover
L’aspetto essenziale di queste due grandi performance sono proprio le parole attraverso cui si esprimono. Fiumi inarrestabili, dialoghi serratissimi come i colpi del boxer sul ring. Uno non dà respiro all’altra, e viceversa, ma insieme Malcolm e Marie tolgono il respiro allo spettatore. Tanto che più di una volta si rende necessaria la sola cosa in grado di ossigenare l’atmosfera: la musica.
Quando si raggiungono i picchi più alti dello scontro, ecco che sono i protagonisti stessi a fermarsi e scegliere una canzone. Ovviamente quella in cui il testo esprime al meglio la sensazione del momento. Accade con I Forgot to Be Your Lover di William Bell, ma anche con Get Rid of Him di Dionne Worwick. Soprattutto però accade nel finale, con Liberation degli OutKast, a cui è lasciata letteralmente l’ultima parola dell’intero film:
There’s a fine line between love and hate you see/Came way too late but baby I’m on it (…)
That’s Liberation and baby I want it
La notte di cui siamo testimoni è un atto di fede e di coraggio. Fede nel partner e nella sua capacità di ascoltare un malessere e accogliere le critiche. Coraggio di abbattere le proprie difese e la propria immagine idealizzata, per riuscire ad amare noi stessi prima che gli altri. Vale per Malcolm e vale per Marie, ma non è un percorso facile, come vediamo. Vale per ognuno di noi spettatori ed è anche per questo che i due protagonisti non sono che proiezioni in una casa di vetro. Sagome da inseguire e osservare, incredibilmente realistiche ma allo stesso tempo chiaramente finte.
Sam Levinson non ci chiede di aderire perfettamente all’uno o all’altra. Anzi, l’identificazione in questo film fluttua continuamente da Malcolm a Marie e viceversa. Perché non sono altro che dei prototipi di esseri umani, personaggi da riempire con la nostra esperienza, parte di un esperimento in laboratorio. Solo che questo laboratorio altro non è che una grande casa isolata e trasparente, piena di finestre e specchi, da cui ci intrufoliamo e in cui ci riflettiamo.
Da questo aspetto ne deriva un altro fondamentale, ossia che anche John David Washington e Zendaya rimangono sempre loro stessi pur essendo Malcolm e Marie: rimangono attori che rivelano i meccanismi del cinema stesso. La componente metatestuale è chiara e forte, infatti, in tutta l’opera, ma si fa esplicita in una particolare sequenza.
Il mezzo è il messaggio
Malcolm & Marie si divide, in modo netto, in due grandi atti, separati da un breaking point, un punto di non ritorno che coincide con il grande monologo di Washington. Poi rispecchiato dal grande monologo di Zendaya sul finale. Ebbene, a separare questi momenti, oltre il diverso tono, c’è anche la sequenza in questione, in cui Malcolm incarna direttamente il pensiero di Levinson.
Sembra quasi un flusso di coscienza in cui l’uomo impreca, urla, si sfoga contro il sistema della critica che mette etichette a qualsiasi cosa, come si fa con i bambini. Malcolm è infatti un regista, un regista nero, che con la sua straordinaria opera prima, quella stessa sera, ha conquistato la stampa alla première. Il film nel film ha una rilevanza assoluta nella trama, anche perché ispirato senza riconoscimenti ufficiali alla vita di Marie, motivo iniziale della lite.
Levinson si spinge anche oltre, portando l’attenzione sull’ossessione della critica bianca per la politicizzazione dei black film. Sulla necessità di far ricadere l’attenzione sempre sul messaggio e mai sul mezzo, sulla forma. Come se l’arte non potesse esistere solo in quanto tale, come espressione di un’interiorità e non necessariamente come manifesto politico. È qui che arriva persino a far citare a Malcolm il meraviglioso film di Gillo Pontercorvo, La battaglia di Algeri, affermando che un ricco ebreo italiano deve aver pur trovato un motivo intimo e personale per realizzare un tale capolavoro sulla rivoluzione indipendentista musulmana e algerina. Altrimenti come avrebbe potuto parlare di qualcosa che non gli appartiene? Come d’altronde Levinson, bianco, che qui racconta un’esperienza black, lavorativa e personale.
E non ha tutti i torti, ma il bello è che Malcolm (e Levinson con lui) continua a contraddirsi rendendo valido anche tutto il contrario. Per esempio, quando esprime tutta la rabbia verso la pedanteria dei critici cinematografici che insistono nel giudicare superficialmente la tecnica: dolly, teleobiettivi e compagnia bella. Dovremmo forse qui far finta di non vedere che Malcolm & Marie sia girato in pellicola Kodak 35mm e con una (splendida) macchina ARRI? Non credo proprio, anche perché è il regista stesso che ci tiene a specificarlo facendocelo leggere a caratteri cubitali nei titoli di testa.
Il fatto è che per quanto sia paradossale nell’ambito della comunicazione, il mezzo è il messaggio, soprattutto e inevitabilmente nell’arte. Perciò sì, anche una storia d’amore come Malcolm & Marie può essere politica, se si sceglie di vederla così.
I don’t need you, but I love you
Che sia lirica o epica, personale o politica, la storia di Malcolm e Marie rimane comunque un grande esempio di storia dell’amore, come ci tiene a specificare la tagline del film.
Il film non racconta come inizia questo amore né come finisce. Semplicemente ci accompagna attraverso una breve ma cruciale fase di confronto e crescita. Le due persone protagoniste sembrano duecento, tutte diverse, perché quando si scava così in profondità, la complessità dell’emozione umana non smette mai di coglierci alla sprovvista. Ci obbliga a rielaborare continuamente il nostro percorso di interpretazione, le nostre idee, i nostri preconcetti. Quando un dialogo è abbastanza coraggioso da diventare vero confronto, è inevitabile perdere i punti di riferimento iniziale. Sentirsi alla deriva prima di comprendere che, invece, è proprio lì che inizia un altro percorso, con nuovi punti cardinali e nuove identità.
Chi sono allora Malcolm e Marie? Chi sono all’inizio e chi sono alla fine? Solo voi potete scoprirlo guardando questo film, incarnandovi in loro o allontanandoli sempre più, amandoli e odiandoli per tutto quello che vi faranno sentire sulla vostra pelle.
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