In Moonlight Black Boys Look Blue è il titolo della pièce teatrale di Tarell Alvin McCraney da cui Barry Jenkins ha tratto il suo film premio Oscar. Riassunto in modo forse ancor più ermetico, è diventato solo Moonlight (2016). Una sola parola che contiene in sé anche uno degli elementi più sorprendenti di quest’opera: la luce.
La prima, generale, osservazione da fare riguardo Moonlight è che si tratta di un film privo di volti bianchi. Da un lato è la storia intima e personale del protagonista assoluto, Chiron. Dall’altra è il racconto di una comunità afroamericana povera e vessata dalla war on drugs degli anni Ottanta. In ogni caso è una narrazione di corpi e di volti neri, in cui la fisicità è centrale e si riflette necessariamente sull’uso della fotografia, che scolpisce linee e volumi.
La fotografia in Moonlight
Può sembrare un’osservazione banale, ma questa caratteristica impone delle scelte ben precise. Per mettere in risalto la pelle più scura è necessario giocare con lo spettro dei colori, oltre che con i costumi e le scenografie.
Se si fa caso, infatti, spesso i personaggi indossano abiti chiari o sono in contrasto con ambienti dai colori pastello. Nelle scene più significative, però, è l’illuminazione ad avere il ruolo più rilevante. Jenkins e il suo DOP James Laxton imprimono al film un’atmosfera al neon nei momenti pregnanti. Questa base cromatica fredda ricorda molto la luce della luna, rimandando fisicamente al titolo dell’opera stessa. Inoltre la luce gassosa e fluorescente del neon in vari colori, dal bianco al rosa fino al blu e al verde, di volta in volta permette di marcare i volti, senza perdere la nitidezza dell’immagine.
Laxton è in grado di creare un’estetica caratterizzante, capace anche di scolpire volti e corpi dei tre attori che interpretano il protagonista Chiron (Alex Hibbert, Ashton Sanders e Trevante Rhodes). Un’estetica che diventa anche politica, considerando quanto siano sottorappresentati al cinema gli interpreti dark skinned. Termine con cui negli USA si indicano le carnagioni molto scure, notoriamente più soggette a stereotipi e pregiudizi.
Le epifanie di Chiron
Si può parlare dell’estrema importanza di Moonlight nelle politiche della rappresentazione afroamericana anche partendo dalla sua sola forma, dalle immagini che noi spettatori riceviamo. Immagini che celebrano il corpo nero, lo esaltano e gli restituiscono la Bellezza che spesso il mondo gli nega. Ogni scena di Moonlight va letta anche in questo senso, ma due nello specifico meritano un’analisi più approfondita. Le due epifanie di Chiron.
Neon rosa: il distacco definitivo dalla madre
Il rapporto conflittuale con la madre tossicodipendente è una componente autobiografica importante sia per McCraney sia per Jenkins. C’è un’attenzione particolare, quindi, nella rappresentazione del momento di rottura definitiva tra la figura materna e Chiron. Viene raccontata quasi in prima persona, poiché la regia cerca di immedesimarsi nelle emozioni e nelle sensazioni del protagonista, ancora bambino (Hibbert). E lo fa strutturando la scena come fosse un’esperienza extra-corporea, come se Chiron si estraniasse dal suo stesso corpo, incapace di sopportare il carico d’odio reciproco di questo momento.
Per sottolineare il carattere soggettivo, la scena è innanzitutto priva di audio. Si vede Paula (Naomi Harris) urlare e riversare sul figlio parole crudeli, ma possiamo solo immaginarle dal labiale. La soggettiva di Chiron, infatti, ci permette di vedere e ascoltare solo quello che il suo ricordo è in grado di filtrare. Vediamo una realtà trasfigurata dall’esperienza e resa ancor più alienante dall’uso del ralenti e del grandangolo, che arrotonda le linee verticali dando un senso di oppressione. Paula, deformata dalla rabbia e dall’abuso di sostanze, è ingabbiata doppiamente dall’inquadratura e dalle pareti.
Ha un aspetto selvaggio e privo di controllo, fa paura e proprio per questo è circondata da un colore di allarme: il rosso. In realtà la luce che proviene dalla sua camera da letto e la investe vira più sul magenta (rosa), però l’effetto è appunto lo stesso, quello di suscitare inquietudine. La base rossa dell’illuminazione indica, senza bisogno di esplicitarlo, il conflitto irreversibile tra i due, giunto a un punto di non ritorno. Ed è anche l’unica base rossa di tutto il film.
Neon bianco-verde: la trasformazione
È quasi alla fine del secondo atto. Chiron è stato appena picchiato a scuola ma questa volta le ferite sono più emotive che fisiche. Con una mossa sadica, il solito bullo sfida e costringe Kevin (miglior amico e primo grande amore di Chiron) a picchiarlo. È la goccia che fa traboccare il vaso e tutti i silenzi e la rabbia di questo protagonista così chiuso e introspettivo iniziano a prendere una direzione diversa.
La scena è molto semplice: Chiron si guarda allo specchio e sciacqua via il sangue dal viso, in un lavandino colmo di ghiaccio. Nessuna musica in colonna sonora, nessun dialogo. Solo un corpo ferito, il suo respiro e la sensazione che qualcosa si sia spezzato per sempre. Un equilibrio, un muro, una barriera di protezione: qualsiasi cosa sia, adesso non c’è più e sembra che Chiron stia per travolgerci. Glielo leggiamo negli occhi, in un primo piano che dura per 20, infiniti, secondi.
A rischio di constatare ancora l’ovvio, la pelle di Ashton Sanders in questa scena è più scura del sangue e delle contusioni, ma è necessario renderli evidenti per dare più intensità alla scena. Jenkins allora pone l’attore in uno spazio angusto ma chiaro, prevalentemente bianco. Già così il corpo è messo in risalto dall’ambiente, ma a ultimare l’effetto si aggiunge la luce al neon, coerente con la scenografia del bagno, quindi giustificata anche nella sua particolare brillantezza. Il neon su un verde freddo fa letteralmente brillare Chiron e, per contrasto e complementarietà, esalta il rosso del sangue sul suo volto. Così facendo, il volto iperdefinito e illuminato in ogni dettaglio lascia trasparire bene la rabbia e la sofferenza che lo spingono poco dopo alla sua vendetta e all’inizio del terzo atto.
Un film complesso, inesauribile sotto un solo aspetto
A questo proposito, la netta divisione in tre atti porta verso tutto un altro discorso da affrontare riguardo la struttura del tempo, soggettivo e oggettivo, in questo grande film. Ma rimandiamo l’approfondimento a un prossimo articolo, continuate a seguirci anche su Facebook e Instagram per contenuti simili e analisi di scene e sequenze.