“Kiss, Marry, Kill” giochino infantile, stile scuole medie, deve senz’altro essere tornato in mente ad Emerald Fennell (che infatti lo cita nel corso della pellicola, ndr) nel momento in cui ha deciso di girare Saltburn, ultima prodezza registica presentata in anteprima italiana alla XVIII edizione della Festa del Cinema di Roma.
Saltburn, la trama
Tornando nell'(ormai) lontano 2006, come ci ricordano spesso costumi e colonna sonora, assistiamo alla storia del trasversale e opprimente rapporto tra Oliver (Barry Keoghan), silenzioso borsista di Oxford, e il suo compagno di scuola Felix (Jacob Elordi), rampollo di nobili natali, star del college letteralmente dal giorno zero, il quale deciderà di prendere sotto la sua ala protettiva il “nessuno” Oliver e portarlo a casa sua, la leggendaria residenza di Saltburn, set perfetto per una fantastica vacanza estiva (e anche per qualche sviluppo inaspettato).
Capitalismo che si veste da lotta di classe
Tragedia con qualche sorriso sarcastico, quasi shakespeariana, una sorta di Sogno di una notte di mezza estate in cui nessuno riesce a sfuggire all’incantesimo delle fate: Emerald Fennell ci apre le porte di un mondo inaccessibile ai più che non è solo quello di Oxford, già di per sé rappresentativo di un’élite, ma anche quello della nobiltà britannica, colosso della storia e della cultura UK, impossibile da sradicare e da non guardare con un misto di rabbia, fascinazione e, chiaramente, invidia.
Sfruttando e alimentando questa invidia, Fennell (che già, con il suo ruolo in The Crown si era fatta le ossa nel trattare le teste coronate) decide di rompere lo schema caro negli ultimi anni alla “anche i ricchi piangono”, tema ricorrente dopo la santificazione mediatica di Lady Diana, ma di non incasellarsi neppure in generi definiti.
Se tutto, dall’inizio, fa pensare alla rappresentazione della lotta di classe, i Robin Hood che rubano ai ricchi per riequilibrare le ingiustizie sociali destinati a pagare, man mano che il discorso prosegue, che ci si addentra in queste stanze soffocanti e impolverate di eccessi e compiacenza, in cui tutto è dovuto, lecito o meno che sia, ci si rende conto che quello a cui stiamo assistendo altri non è che una farsa costruita ad opera d’arte.
Un inganno morboso al pari della feticizzazione di Oliver per Felix, dove ognuno ricopre un ruolo perverso non nella distruzione o ribaltamento dello status quo, ma nel preservarlo e rafforzarlo: tra flussi di alcool, acqua e sangue, assistiamo alla vittoria del capitalismo, al primeggiare della smania di avere sempre di più, in maniera bulimica, schiavi del possesso più materialisticamente inteso.
Specchi distorcenti
Arrivata alla seconda prova registica nel giro di pochi anni, Emerald Fennell si sposta in maniera lineare e parallela rispetto al percorso tracciato con Promising Young Woman. Anch’essa opera a tratti disturbante, con un’estetica definitissima che quasi canzona la serietà dei temi mostrati: se la regista nel primo film entrava a gamba tesa nel panorama cinematografico, adesso ritorna di soppiatto, silenziosa come un serpente e dipingendo una realtà speculare ma distorta rispetto a quanto già raccontato.
Entrambe le opere, infatti, sono focalizzate su una figura centrale che è anche istigatrice di cambiamento, motore trainante della storia e mente pianificatrice del tutto. In questa partita a scacchi con la vita e la morte, dove ogni pedina si muove seguendo uno schema pre-ordinato, ritroviamo elementi comuni, quali il gaslight, la violenza, l’ambivalenza dei rapporti e, chiaramente, la vendetta.
Con l’unica, grandissima scriminante che Carey Mulligan in Promising Young Woman è mossa da un motivo reale e instaura un “gioco” in cui sa che ne uscirà perdente (dal momento che agisce in una società in cui forme di ribalta come la sua sono ripudiate). Perché mossa dalla necessità di fare giustizia nel senso morale, più che legale del termine. Il personaggio di Barry Keoghan, invece, è esattamente l’altro lato della medaglia.
La sua vendetta non è contro un sistema, come pure si vuole far intendere con le prime battute, ma a favore solo della propria cupidigia e brama di scalata sociale, uccidendo la morale, contaminando il significato di amore con il veleno dell’avarizia. Oliver/Keoghan non contempla mai la sconfitta perché mosso in una società in cui questo atteggiamento, seppur estremizzato, viene considerato valido e legittimo, spronando a volere e chiedere sempre di più, a scapito di tutto e tutti.
Lo spazio di Saltburn
Ponendosi come una sorta di rilettura de Il Talento di Mr Ripley (solo con più musica pop) e sfruttando immagini già strutturate nella nostra mente (impossibile non vedere una strizzata d’occhio anche a Call Me By Your Name), Saltburn probabilmente non diventerà un classico come il già citato film di Minghella del 1999 né mira ad avere l’impatto distruttivo e dirompente di Promising Young Woman, ma riesce a ritagliarsi un suo spazio, una zona d’ombra in cui farsi cullare da giustapposizioni di stili e intenti (sia a livello estetico che di temi).
Senza scopi moraleggianti, senza pacche sulle spalle o schiaffi sulle mani, Saltburn apre uno spiraglio nel meraviglioso mondo di chi esclude, negli eccessi dell’aristocrazia odierna e nei lati più oscuri e contorti di chi in ciò vede l’unica forma di felicità possibile, fomentata dalla domanda “Perché non io?”.
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