240 minuti per dimenticare l’apocalisse
Oltre al raffreddore stagionale, la pioggia il primo maggio e il panettone senza canditi, c’è un altro elemento imprescindibile affinché l’universo giri nel verso giusto e tutti possiamo contare su una rassicurante presenza fissa nelle nostre vite: il Festival di Sanremo.
Da sempre catalizzatore di tendenze filtrate dalle lenti di Rai Uno, veicolo delle migliori polemiche – e dei migliori meme – della settimana, anche alla sua 72° apertura, il palco dell’Ariston è specchio dei demoni del nostro tempo. Poi che questi demoni per qualcuno abbiano la forma di un’omobitransfobia malamente celata e per altri i capezzoli di Achille Lauro bagnati dall’acqua santiera, è un’altra questione.
Il punto di non ritorno
Chi dice che dall’iconica sfuriata di Bugo e Morgan con successiva squalifica dalla gara a Sanremo 2020 niente è più stato come prima, non si sbaglia poi tanto.
Quell’edizione tanto simbolica, e importante per motivi diversi, si è per sempre bloccata nel tempo, come l’ultimo momento di spensierata inconsapevolezza prima del disastro della pandemia. In un inquietante sguardo verso il futuro e tutto quello che sarebbe stato poi, quel Sanremo ha messo sotto gli occhi di tutti l’importanza e l’imprescindibilità del conforto della finzione.
Lo stesso che mandava avanti il circo televisivo manovrato da Mike Bongiorno e i suoi telequiz, quello che ha messo l’illusione effimera del riscatto sotto il naso di un’Italia ancora stanca e sporca delle macerie del dopoguerra, ma annebbiata dalla follia del miracolo economico. Da quei codici comunicativi ne è passata di pop culture sotto i ponti, ma le cose, oggi più che mai, sembrano cristallizzate in un’emblematica fotografia.
Senza live, con il pile sul divano canta Dargen D’Amico, riassumendo grosso modo questi due lunghissimi anni di pandemia, che se da un lato hanno inevitabilmente cambiato, modificato – a volte distrutto – la vita e la quotidianità, dall’altro hanno fatto sì che questa normalità che tanto ci manca, venisse cercata altrove. E dove se non nella finzione dello spettacolo? L’evasione è la fisiologica risposta ad una situazione sconosciuta e terrificante, e niente come la cultura pop può essere fonte tanto di distruzione della norma, quanto di conforto nel ritrovare una norma che non c’è più.
Se il Festival di Sanremo è lo spettacolo pop per eccellenza, allora, non c’è da stupirsi affatto se l’edizione di quest’anno ha registrato il più alto share dal 1997, e se la kermesse ha ritrovato la sua dimensione di rito sociale per gli italiani, anche e soprattutto i più giovani.
Complice la mancanza di eventi, la chiusura delle discoteche e l’annullamento o lo spostamento a data da destinarsi di live e concerti, Sanremo è tornato ad essere un evento a tutti gli effetti, fuori e dentro i social. La sensazione di vivere insieme una settimana di musica, di ritrovarsi a parlare delle stesse cose, di ridere delle stesse cose e di confrontarsi sulle stesse cose – anche se ciascuno nella solitudine delle proprie case – ha restituito al Festival un ruolo che non aveva da decenni: quello di confortare, distrarre, cullare.
È veramente il Festival dei giovani?
La politica di svecchiamento radicale della lineup del Festival, iniziata già da Claudio Baglioni nel 2019 e che Amadeus, poi, ha reso punto cardine della sua direzione artistica delle successive tre edizioni, non è totalmente riuscita.
Nel 2019, le polemiche sterili e infinite sui big scelti da Baglioni e la sintomatica incapacità del service della Rai di gestire l’autotune sul palco – che richiama inevitabilmente quel Sanremo ‘66 e il panico di fronte agli amplificatori e alle chitarre elettriche dei Yardbirds – parevano dimostrare una reale apertura del Festival al mondo esterno e la volontà di acchiappare un pubblico più giovane, con tutti i rischi del caso.
Nel 2020 le falle di questo progetto erano già piuttosto visibili: rapper che non rappano e tentano di confezionare hit sanremesi, scelta di artisti comunque il più rassicuranti e “sanremizzabili” possibile. Ma c’era Achille Lauro, che nell’ottica comunque ottusa e retrograda del palco dell’Ariston, ha scardinato qualsiasi norma messa in piedi in settant’anni di kermesse.
E non è un caso che sia proprio la parabola discendente di Lauro a Sanremo a fare da paradigma del parziale fallimento di questa operazione di apertura verso l’esterno. Se nel 2019 Rolls Royce è stata effettivamente il simbolo della decostruzione del Festival stesso e le performance nel 2020 hanno aperto una breccia per accogliere determinate tematiche e cifre stilistiche, nel 2021 e, ancora di più, nell’edizione di quest’anno, Lauro, e con lui il Festival, si è ripiegato in un’autocelebrazione individualistica che ha soltanto le tinte sbiadite di quello che era. Quest’anno Lauro si infila una mano nei pantaloni e si benedice in diretta, ma non c’è niente di rivoluzionario.
È esattamente questo, oggi, il codice comunicativo del Festival, che lui stesso ha portato per la prima volta. Con Domenica, un brano giusto per Sanremo ma confortante e che non si prende sul serio, Lauro è oggi lo standard da cui Amadeus ha cercato di discostarsi con La Rappresentante di Lista, Giovanni Truppi e Tananai.
Ma se i primi hanno hanno confezionato una hit radiofonica ad hoc, con tanto di coreografia pronta da riprodurre su TikTok, il secondo ha assunto il ruolo dell’outsider un po’ “strambo”, che non si sa bene che pubblico abbia ma che appare raffinato, quindi va bene così. Tananai è stata l’unica scelta realmente azzardata, soprattutto nel suo duetto con Rosa Chemical e infatti non è stato capito, né ascoltato, né preso sul serio. Tutti gli altri nomi acchiappa-teenagers, da Sangiovanni, a Michele Bravi, ad Aka7even, hanno portato brani vecchi, rassicuranti e sostanzialmente fermi nel tempo.
Ma là dove ha fallito Amadeus, ci ha pensato la pandemia e se è vero che l’impresa di fare un “festival per i giovani” è parzialmente naufragata dal punto di vista musicale, il ruolo sociale del Festival ha invece assunto un’importanza pregnante.
Ci piacciono tanto gli anni ’80 e infatti, come negli anni ’80, abbiamo bisogno delle illusioni della televisione. Abbiamo bisogno di conduttori in doppiopetto glitter che ci diano una scaletta da seguire, qualcosa da commentare e una settimana di pausa dalla realtà. Ma alla fine, come tutte le cose, anche Sanremo finisce e la vita torna esattamente com’era prima, con le paure e le incertezze del tempo e nessun Fantasanremo da giocare.
Continua a seguire FRAMED. Siamo anche su Facebook, Instagram e Telegram!