She Said
Megan Twohey (Carey Mulligan) e Jodi Kantor (Zoe Kazan) in She Said

Corridoi vuoti e tutti identici, impersonali, quelli degli hotel in cui Harvey Weinstein costringeva attrici e collaboratrici a un’intimità indesiderata. Come un fantasma la macchina da presa vaga in questi spazi di passaggio mentre una voce, la voce del grande assente si impone con il suo fare autoritario, violento, maschilista. Se proprio questa, fra tutte, è la sequenza di She Said che rimane più impressa, quella con più valenza emotiva, forse il film di Maria Schrader ha qualcosa che non funziona come dovrebbe.

5 ottobre 2017, il click day

L’intero film tende a un unico momento, quello del click day con cui effettivamente si chiude l’ultima scena: l’esatto istante in cui tutto il lavoro di inchiesta del New York Times culmina nella pubblicazione del primo articolo contro Harvey Weinstein. Era il 5 ottobre 2017 e il pezzo – a questo link – era firmato da Jodi Kantor e Megan Twohey.

Sono state loro, vincitrici poi del premio Pulitzer per il libro redatto dall’inchiesta, a condurre per mesi la ricerca sul produttore hollywoodiano, cercando fonti e conferme, tessendo una tela di testimonianze ben salda, con l’obiettivo di “fare un passo avanti tutte insieme”, senza lasciare nessuna testimone indietro, scoperta.

Il loro complesso e delicatissimo lavoro, a contatto con donne abusate e maltrattate da Weinstein, anche molto famose, terrorizzate dal clima creato dal produttore, è il fulcro del film di Schrader, al punto da penalizzare a volte altri aspetti dell’opera nel complesso. Si finisce per sapere poco delle due protagoniste, se non che sacrificano parti essenziali della loro vita privata, di donne, madri e mogli, senza vederne in dettaglio le sfaccettature psicologiche.

Dove She Said perde l’equilibrio

Per convenzione, ossia per le categorie dei premi cinematografici, viene individuata Zoe Kazan (Jodi Kantor) come protagonista e Carey Mulligan (Megan Twohey) come supporting actress, quest’ultima già con una nomination ai Golden Globes. Il fatto però che vi sia un’attrice molto più celebre dell’altra in un ruolo minore già scombina l’equilibrio tra i due personaggi, indebolendo quello che, secondo la sceneggiatura, dovrebbe essere il personaggio cardine. Kazan, in altre parole, nonostante sia un’ottima attrice dal cognome pesantissimo a Hollywood (è la nipote del grande Elia), svanisce sotto il peso di Mulligan, ed è un peccato.

Quello che nelle intenzioni di Maria Schrader vorrebbe essere un andamento in crescendo, nella realizzazione finale perde potenza. She said ha tutto: ha la storia, ha la struttura “investigativa”, i momenti di stallo disperato e i punti di svolta cruciali. A mancare è forse l’anima, l’emozione, a discapito di una storia che andava raccontata, esattamente così, ma che forse è ancora troppo vicina al nostro presente. Farebbe troppo male se scavasse più a fondo, allora si limita a galleggiare sulla superficie.

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