Trent’anni fa Kurt Cobain si toglieva la vita; trent’anni fa, il 5 aprile 1994, si chiudeva un’epoca di musica e controcultura con il gesto più eclatante che potesse decretarne la fine, un colpo di fucile, il cadavere di un ventisettenne. Quel ventisettenne, famoso in tutto il mondo, oltre ad essere stato uno dei più grandi esponenti del grunge, ha incarnato con musica, dolore e rabbia un periodo storico che sembra lontanissimo.

Celebrato come membro del club dei 27 (insieme ai musicisti che sono morti alla stessa età), santificato come un angelo biondo sceso dal cielo per sputarci in faccia tutta la nostra inettitudine, Kurt Cobain è ancora protagonista di grottesche speculazioni sui dettagli dei suoi ultimi momenti, sterili articoli costruiti sul binomio di successo e malessere, e in generale di una vasta produzione “letteraria” che ne celebra più la morte che la vita. Spunta però un libro, edito da Minimum Fax, Territorial Pissings. L’ultima intervista e altre conversazioni, che in poco più di 100 pagine quella vita la celebra con diretta e brutale semplicità, rivelando il Kurt dietro al palco, mostrando nuove sfaccettature del frontman dei Nirvana, compresa l’ultima intervista rilasciata prima di morire.

Da leggere tutto d’un fiato, Territorial Pissing, con la traduzione di Assunta Martinese, attraverso varie interviste ripercorre gli anni più importanti della carriera del gruppo; è un viaggione quasi istantaneo (lo divorerete) eppure persistente, che torna ad infiammare un urlo generazionale che Cobain era il primo a trovare non più incasellabile, e lo fa con candida verità, espressa attraverso un linguaggio volutamente non ricercato, a cavallo degli anni che l’avrebbero reso eterno.

L’ultimo a credere nel punk

When I was an alien, cultures weren’t opinions

Territorial Pissings, Nirvana

Nell’introduzione del libro, Diana Spiotta scrive: “Probabilmente Kurt Cobain è stata l’ultima persona a credere nel punk“, e di punk si parla molto, sia a livello concettuale che musicale, le parole di Cobain rivelano uno stato sociale e politico dell’essere punk, sebbene lui di politica non voleva parlarne per non dare lezioncine. Quell’ideologia derivata dall’ascolto dei Black Flag, dei Flipper e degli altri gruppi la cui musica veniva letteralmente consumata dall’ascolto su cassetta, si scontra poi con il successo, il mostruoso enorme e straripante successo dei Nirvana. MTV, i videoclip, il pubblico ai concerti che non era più quello di loro simili ma anche di fighetti. Con quell’ondata di celebrità Kurt deve scenderci a patti, per continuare a fare ciò che ama di più: scrivere canzoni e suonarle su un palco con altri bravi musicisti.

Quella purezza però mal si inseriva nelle logiche di mercato e nei titoli dei giornali, e la sua anima punk dovette iniziare a fare i conti con l’industria della musica. Allo stesso modo doveva essere proprio in una buona giornata per apprezzare le domande dei suoi intervistatori, spesso ripetitive, stremanti, noiose. Così come diventa noioso il grunge o suonare Smells Like Teen Spirit, troppo famosa per continuare a piacergli davvero.

All’interno dell’ottica di un fiero messaggio da perdente, un loser così loser da essere definito un pazzo da non infastidire, che condivide attraverso la musica angoscia e alienazione, Cobain non disdegna il successo che gli permette di pagare prima l’affitto e poi una casa: nelle sue parole c’è una costante contraddizione, che si assottiglia con il susseguirsi degli album, ma che rimane insita in lui fino alla fine. Quella contraddizione è il petrolio che sporca qua e là le risposte divertenti e le battute, e che si percepisce tra le righe come un’ombra onnipresente.

Immaginarselo ancora vivo

La mia musica è quello che faccio; la mia famiglia è quello che sono. Quando tutti avranno dimenticato i Nirvana, e io sarò in un tour nostalgico ad aprire per i Temptations e i Four Tops, Frances sarà ancora mia figlia e Courtney sarà ancora mia moglie. Questo per me conta più di qualsiasi altra cosa.

Kurt Cobain

Territorial Pissings è come un film che sai già come va a finire ma che fino all’ultima scena ti illude a livello inconscio che si concluderà diversamente. La prima intervista è del 18 aprile 1990, dopo l’uscita del primo album in studio, Bleach, e prima di Nevermind, ed è colma di una sprezzante voglia di costituirsi come alternativa, approcciandosi ai primi tour con il sogno di riuscire a comprarsi una casa senza il bisogno di navigare nel denaro.

L’intervista conclusiva, nonché l’ultima rilasciata nel febbraio 1994, a pochi mesi dal suicidio, ci illude che la storia che stiamo leggendo non finirà lì; nell’arco di tre pubblicazioni in studio, di cui l’ultima è In Utero del 1993, Cobain è cresciuto, si è sposato e ha una figlia. Sa che il grunge dei Nirvana non potrà resistere ancora per molto, ha la necessità di cambiare, sperimentare, così come Krist Novoselic e Dave Grohl (che compaiono in alcune delle conversazioni presenti). Eppure non accenna a smettere, perché suonare gli piace ancora, nonostante sia stanco di essere continuamente etichettato, quello che vuole intraprendere è un cambio di rotta, nuove idee.

Leggendo Territorial Pissings è come se la storia si dispiegasse di nuovo, dando una nuova possibilità a quel ragazzo che metteva insieme stralci di poesie per scrivere canzoni e rappresentare una generazione senza punti di riferimento. E mi immagino un futuro in cui avremmo detto non è più il Kurt punk di una volta, continuando però a comprare i suoi dischi, oppure uno scenario in cui i Nirvana si rincontrano per un nuovo unplugged, stavolta in diretta streaming. Le interviste che compongono la raccolta sono i tasselli che urgentemente mancavano, per sentire meno lontani quegli anni densi, non solo di camicie di flanella e chitarre distorte.

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Silvia Pezzopane
Ho una passione smodata per i film in grado di cambiare la mia prospettiva, oltre ad una laurea al DAMS e un’intermittente frequentazione dei set in veste di costumista. Mi piace stare nel mezzo perché la teoria non esclude la pratica, e il cinema nella sua interezza merita un’occasione per emozionarci. Per questo credo fermamente che non abbia senso dividersi tra Il Settimo Sigillo e Dirty Dancing: tutto è danza, tutto è movimento. Amo le commedie romantiche anni ’90, il filone Queer, la poetica della cinematografia tedesca negli anni del muro. Sono attratta dalle dinamiche di genere nella narrazione, dal conflitto interiore che diventa scontro per immagini, dalle nuove frontiere scientifiche applicate all'intrattenimento. È fondamentale mostrare, e scriverne, ogni giorno come fosse una battaglia.

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