Come se la cava Louis (Vincent Dedienne), impiegato goffo e cordiale, in uno studio legale pieno di colleghi arrivisti? Non benissimo. Incassa con grazia ogni volta che fa una gaffe, ma nel frattempo somatizza un bozzo alla bocca dello stomaco. Va dal medico: è cancro. Sembrerebbe una tragedia, ma siamo pur sempre nel cinico mondo degli avvocati parigini. Secondo la dirigente Elsa (Clémence Poésy) lui può diventare un’ottima risorsa per convincere un gruppo di denuncianti malati a patteggiare con un cliente importante dello studio, produttore di pesticidi. Torna dal medico, e scopre che si era sbagliato: non è cancro.
Considerando l’attenzione e l’importanza strategica acquisite con il suo status di malato, Louis tituba: confessare di essere sano e tornare nelle retrovie, o cavalcare l’onda omettendo l’aggiornamento? Per di più nel frattempo si è avvicinato molto a due denuncianti (Hélène e Julien, Géraldine Nakache e Rabah Nait Oufella), e rivelare di essere un impostore comprometterebbe la sua già precaria relazione con loro. L’unica altra presenza amichevole nella sua vita è il vicino Bruno (Rudy Milstein), che dopo un ictus infantile non sente più alcuna emozione.
Commedia, malattia e cinismo
Je ne suis pas un héros – Una bugia per due è il primo lungometraggio diretto da Rudy Milstein (qui anche attore e co-sceneggiatore), e sembra mosso da intenzioni tanto ambiziose quanto scivolose. Mettere assieme commedia, malattia e cinismo può confezionare perle di humor macabro o sfociare in una comicità consolatoria e convenzionale: il risultato finale si ferma a metà tra le due, consegnandoci un film promettente ma non pienamente riuscito.
Due sono i motori comici principali, ed esauriscono gran parte del loro potenziale nel giro di mezz’ora. Il primo è la caratterizzazione dello studio e dei colleghi di Louis, e di come lui si muova in questo ambiente con grande inadeguatezza. Escluso dall’accesso ad uno status elevato, ne osserva gli assurdi rituali da una posizione marginale, dove può accumulare figuracce senza che queste intacchino il suo potere (inesistente). Il secondo è il rapporto con Bruno, che con la sua incapacità di leggere le emozioni suggerisce all’amico soluzioni risibili per il suo dilemma.
Premesse comiche e redenzione finale
Questi elementi sono al lavoro anche nel seguito del film, ma perdono forza dal momento in cui Je ne suis pas un héros – Una bugia per due comincia a prendere sul serio la titubanza di Louis, che diventa non tanto un personaggio quanto un dispositivo narrativo che deve far combaciare premesse comiche e redenzione finale: funziona, se si ignora la sgommata forte da arrampicata sugli specchi. Non è un eroe, ma poi lo diventa; non è antipatico, ma fa delle cose terribili; non è del tutto colpevole dell’equivoco che cavalca, ma la tira troppo per le lunghe per uscirne immacolato.
La sua passività è così disperante da farci parteggiare per le tre figure forti femminili, ognuna (figurarsi) arrabbiata con lui per diversi motivi: la madre perché non è intraprendente abbastanza, Elsa perché non pensa al bene dello studio, Hélène perché lo considera un doppiogiochista. E nel frattempo ha perso la sua principale qualità: quella distanza goffa che lo teneva al riparo dalle richieste del mondo reale.
In breve
Je ne suis pas un héros – Una bugia per due è un film che abbandona presto una chiave comica graffiante per privilegiare un realismo poco convincente. La scrittura, inizialmente brillante, perde forza e procede a fatica, lasciandoci con un finale prevedibile.
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