Lo stavamo aspettando con trepidazione, il nuovo film di Scott Cooper. Tratto dal racconto The Quiet Boy di Nick Antosca (tra le altre cose, creatore della serie horror antologica Channel Zero), Antlers – Spirito insaziabile (ah, i sottotitoli della distribuzione italiana) si presenta come un horror soprannaturale con il mostro. Il mostro in questione è il wendigo, creatura del folklore dei popoli indigeni stanziati tra Canada e nord degli Stati Uniti. La mutazione da uomo a wendigo è legata mitologicamente al cannibalismo e alla possessione.
Tutti gli elementi per realizzare un buon film di mostri, con una costruzione metaforica che si accompagnasse alla letterale brutalità dell’istintualità di sopravvivenza della creatura, erano lì sul piatto. Con un produttore come Guillermo del Toro, poi, non dico che il marchio di qualità in tal senso fosse già assicurato, ma la fiducia nell’opera non sembrava per niente malriposta. Ma allora, cosa è andato storto? Perché Antlers – Spirito insaziabile risulta, in fin dei conti, un film vuoto, incapace di lasciare un’impronta personale?
C’era una volta il wendigo
La trama è presto detta. Julia Meadows (Keri Russell) è una maestra dal passato tormentato che è da poco tornata nella casa dove è cresciuta. La sua attenzione viene presto attirata da Lucas, un suo alunno che sembra avere qualche difficoltà a casa. Le difficoltà (un vero e proprio eufemismo) si rivelano – ai personaggi, noi le intuiamo chiaramente fin dall’inizio – ben più terribili di quanto immaginato. Con l’aiuto del fratello Paul (Jesse Plemons), Julia farà di tutto per salvare il ragazzino da un orribile destino di morte.
La scena iniziale, prima dei titoli di testa, che vorrebbe essere d’impatto ma risulta troppo sbrigativa e anticlimatica per l’intento, ci introduce al reame del mostro. Una spiegazione su cos’è, come ha origine e cosa comporta ci verrà fornita in seguito dagli stessi personaggi (e l’argomento della lezione della maestra, convenientemente, sono proprio i miti, le leggende, il folklore). Si tratta, come anticipato, del wendigo, una creatura che probabilmente è divenuta familiare al grandissimo pubblico grazie a un videogioco sviluppato da Supermassive Games e pubblicato da Sony, Until Dawn. Se la storia non presenta nessun punto comune, la minaccia centrale e le ambientazioni sono pressoché identiche. In Antlers – Spirito insaziabile non siamo tra le montagne e i laghi dell’Alberta bensì in Oregon, ma le vibrazioni atmosferiche sono le medesime.
E qui arriviamo al più significativo – e innegabile – punto forte del film: la creatura. Il design del wendigo – così come il make up della fase di transizione da uomo a mostro – è di una ricchezza di dettagli e sporca minuziosità mirabili. E Cooper non fa nemmeno l’errore di mostrarlo chiaramente, integralmente, fin da subito: ci offre, pezzo dopo pezzo, le sezioni di una mostruosità che, una volta inquadrata, si rivela nel suo immane orrore. Strutturando il film anche come un body horror visivamente interessante.
Una piattezza insostenibile
Il problema principale di Antlers – Spirito insaziabile è che mai emerge un’impronta caratteristica, un suo particolare animo che riesca a dare una forza emotiva al film. La cura estetica purtroppo non riesce interamente a supplire alla mancanza di una sceneggiatura coinvolgente o perlomeno fluida. I dialoghi in particolare – complice il doppiaggio abbastanza infelice – sembrano costantemente stanchi, privi di qualsivoglia spirito o guizzo che possa rivelare un approccio indirizzato ad una resa dinamica, personale di una storia. Si ha la fastidiosa sensazione che siano un vuoto ingranaggio funzionale alla sola spinta propulsiva del meccanismo svogliato della trama. Nemmeno troppo in filigrana si riesce a vedere la loro indolente – e per questo deludente – schematicità funzionale. E ad un certo punto diventano quasi una cantilenante nenia che ti culla verso prevedibili sviluppi che – matematicamente – si avvereranno.
Il fatto che la storia del wendigo non sia originale poco o nulla ha a che fare con il poco trasporto con cui si seguono le vicende. Una variazione sul tema sarebbe stata accolta a braccia aperte – come avrebbe potuto essere altrimenti, con una creatura così interessante? – ma ciò a cui appigliarsi senza sbadigliare è ben poco. E di certo questo qualcosa non sono i personaggi.
Recitati con una meccanicità desolante, i personaggi sono bozzetti funzionali, di una bidimensionalità imbarazzante. Non basta inserire e far intravedere l’infanzia tormentata dagli abusi di Julia per scatenare e legittimare la nostra empatia nei suoi confronti. Token del trauma, l’abuso diventa il terreno comune che giustifica il suo attaccamento – quasi ossessivo, perché non ulteriormente giustificato – a Lucas. E se di Julia sappiamo poco, gli abusi di Lucas diventano – letteralmente – una linea di dialogo, messa lì per dare una spiegazione alla vicinanza umana tra i due.
Il piccolo Jeremy T. Thomas – ancora, non aiutato dal fastidiosissimo doppiaggio – è ai limiti della sopportabilità. Si viene a patti e lo si accetta in quanto personaggio dimesso perché richiesto dalla trama. Ma la moscia flemma con cui si muove e si rapporta agli altri personaggi non trovano giustificazione in un ragazzino che ha avuto la forza fisica e morale di tenere imprigionati per amore i propri familiari. Veramente detestabile, soprattutto come (in teoria) forza portante del film.
In conclusione, una grandissima occasione sprecata. Ed è un peccato, perché c’è tanto gore, c’è tanta consapevolezza estetica, c’è tanto potenziale. Ma oltre a questo altro non c’è.
Continua a seguire FRAMED per rimanere aggiornato sulle ultime uscite in sala, anche su Facebook e Instagram!