Jennifer Jason Leigh, Daisy Domergue, The Hateful Eight, Quentin Tarantino

Un’analisi del personaggio di Daisy Domergue

La prigioniera di The Hateful Eight (Quentin Tarantino, 2015), interpretata da Jennifer Jason Leigh: dal suo ruolo all’interno della narrazione alle dinamiche dello sguardo che ne regolano la messa in scena, con ovvi, e qui dichiarati, SPOILER.

C’era una volta, nell’innevato Wyoming…

Qualche anno dopo la fine della guerra civile, Wyoming. Una musica incalzante accompagna il faticoso avanzare dell’ultima diligenza per Red Rock prima del sopraggiungere della bufera di neve. Il colonnello Marquis Warren (Samuel L. Jackson), seduto su una pila di tre cadaveri, blocca il passaggio. Sembra che la fortuna gli abbia arriso. Il cocchiere O.B. ferma la diligenza, e intima al cacciatore di taglie di chiedere al suo passeggero se non abbia problemi a dividere il viaggio con lui. Il passeggero, il suo collega John Ruth (Kurt Russell), è molto diffidente.

Teme si possano generare spiacevoli attriti dettati dall’avidità. D’altronde anche lui sta trasportando un criminale, da consegnare alla giustizia a Red Rock. Ma John Ruth è anche chiamato ‘il Boia’: se vieni catturato da lui, puoi star sicuro che sarai impiccato. Perciò in sua compagnia non c’è un cadavere, ma un prigioniero. Anzi, una prigioniera. Ma, come si chiede il maggiore Warren e come si chiederanno altri personaggi nel corso del film, chi è?

Who the fuck is Daisy Domergue?

Come scopriremo solo nell’ultimo atto del film, Daisy è la sorella di Jody Domingre (interpretato da un Channing Tatum che compare alla fine come un pupazzo a molla dalle viscere dell’emporio di Minnie). Dunque, Oswaldo Mobrey, Joe Gage e Bob (Tim Roth, Michael Madsen e Demián Bichir) sono in realtà i loschi Pete Hicox, Grouch Douglass e Marco il Messicano della Domingre Gang. Le loro teste hanno un valore che farebbe gola a qualsiasi cacciatore, ed è così che si spiega la notevole taglia di 10.000 dollari che pende su Domergue. Gli apparenti vaneggiamenti dettati dalla paranoia di John Ruth si rivelano oltremodo fondati: non uno, non due, ma ben tre degli ospiti dell’emporio sono in combutta con Daisy per liberarla.

The Hateful Eight - Quentin Tarantino
The Hateful Eight – Quentin Tarantino

Non è chiaro se la donna sappia tutto fin dall’inizio, essendo questo un piano d’emergenza concertato per una simile evenienza. È possibile che Daisy comprenda realmente in quale gioco si trovi solo nel momento in cui varca la soglia dell’emporio. Fosse anche vera la seconda ipotesi, il comportamento di Daisy per due terzi del film fa trasparire una certa sicurezza da parte sua. Una sorta di tracotanza spiegabile con la sconfinata fiducia nutrita nei confronti della capacità di soccorso del fratello.

È sapendo tutto quello che il film ci fa sapere su Daisy – ben poco – che ci avviamo in un’analisi della messa in scena del suo personaggio.

Una resistenza attiva nella passività imposta

Non appena Tarantino decide di mostrarci i passeggeri sulla diligenza di O.B., è Daisy la prima che vediamo. Dal lato di John Ruth si affaccia una carabina, spianata contro il maggiore Warren, che deve essere torchiato a dovere prima che gli venga eventualmente concesso l’agognato passaggio. Sulla destra, Daisy è a favore di luce, e subito il nostro sguardo cade su di lei, incuriosito dall’occhio pesto e il fare fin da subito strafottente. Il focalizzarsi sul suo volto è guidato ed enfatizzato dalla creazione di un quadro nel quadro – nel quadro, aggiungerei: all’interno del primo quadro (l’inquadratura cinematografica), sono presenti un secondo quadro, delimitato dalle porte della diligenza, e un ulteriore quadro delineato dalla finestrella di quest’ultima.

The Hateful Eight - Quentin Tarantino
Jennifer Jason Leigh, The Hateful Eight – Quentin Tarantino

È proprio all’interno di questo quadro di terzo livello che il volto di Domergue si colloca, per venire scandagliato dallo sguardo dello spettatore. Questa potrebbe essere una prima modalità registica messa al servizio della sottolineatura della centralità narrativa di Daisy, qui espressa grazie ad espedienti visivi.

Daisy è costantemente oggetto dello sguardo. Questo suo statuto nel regime visivo del film si configura come l’espressione cinematografica della sua condizione di prigioniera. Così come sottostà alle angherie dell’Altro, uomo, il suo corpo è ripetutamente congelato nella posizione di oggetto. Come sostenuto con militanza tranchant da Laura Mulvey in riferimento al cinema americano classico, “il piacere del guardare è stato scisso in attivo/maschile e passivo/femminile”.

Lo sguardo di Daisy si esplica per la maggior parte del tempo in microazioni, in espressioni sottomesse. È sempre in secondo piano, alle spalle di John, legata com’è – metaforicamente e non – al cacciatore di taglie. Parla pochissimo, ma le ripetute inquadrature mute su di lei sembrano voler suggerire che, privata della parola e dell’azione, lei si rifaccia sull’ascolto. È pronta a cogliere qualsivoglia informazione utile, è sempre sull’attenti. Quando interpellata mostra sempre di essere a conoscenza di tutto quello che è necessario sapere, spesso a differenza di John.

The Hateful Eight - Quentin Tarantino
The Hateful Eight – Quentin Tarantino

Mi chiedo allora se esistano, lungo il corso del film, dei momenti di resistenza dello sguardo femminile di Daisy in una narrazione così dominata da quello maschile.

Non le verranno concesse soggettive, almeno fino al momento della morte: mentre viene brutalmente impiccata la macchina da presa si posiziona dietro le sue spalle, ad inquadrare una porzione del suo busto e dando vita ad una semisoggettiva. Il punto di vista prima obnubilato dal sangue e dalla morte che sopraggiunge, e poi definitivamente cieco, si configura come un’istanza giudicante (significativamente posizionata in alto). È il compiersi di quella giustizia di frontiera su cui Oswaldo aveva pontificato, in cui di giustizia vera rimane ben poco.

Curiosamente, il punto di vista ritorna quello semisoggettivo di Daisy anche nella scena finale, mentre Chris Mannix legge la falsa lettera di Lincoln, l’arma di Marquis contro l’uomo bianco. Contro la donna bianca pare non aver funzionato – basti ricordare lo spregio con cui Daisy ci sputa sopra – è tant’è che ormai paiono tutti sulla stessa barca di morte. Come non fa che ricordarci la canzone che accompagna i credits: But there won’t be many coming home (…).

Un’altra inquadratura di Daisy che provoca una stonatura con il corpo del film, è quella del suo volto insanguinato, mentre si rialza dopo essere stata colpita da John. È un primissimo piano che dura più di dieci secondi: l’odio e la vendetta trasudano dall’espressività repressa della donna. Non saremo mai più così vicini a Daisy, e qui notiamo il trucco bianco sul suo volto e il livido attorno all’occhio così vistosamente artificiale, con il sangue invece vivido che le cola al lato. È un cozzare di realtà e costruzione che ci preannuncia il doppio gioco e il massacro che ci aspettano.

The Hateful Eight - Quentin Tarantino
The Hateful Eight – Quentin Tarantino

Ci sono poi due momenti in cui la macchina da presa sembra indugiare senza ragione sul personaggio di Leigh. Il primo è un primo piano su di lei con Apple Blossom dei White Stripes in sottofondo. Si lecca le ferite, guardando un po’ la distesa bianca – la libertà – che si estende fuori dalla diligenza, un po’ il maggiore Marquis, con seducenti occhiate di sfida. È forse un errore di montaggio? Sembra più che altro il dare respiro alla narrazione del personaggio, evidenziandone la natura di calcolatrice paziente e astuta.

Il secondo momento ha luogo dopo l’incidente della lettera: Daisy si ritrova fuori, nella neve, per un attimo lasciata libera dal corpo e dallo sguardo di John, che anzi si allontana senza badarle più di tanto. Si sentono solo i suoni della natura, della bufera che avanza, e lei tira fuori la lingua per assaporare la neve – la libertà.

Per quanto concerne l’identificazione, essa viene qui continuamente rimbalzata, per non trovare mai spazio pienamente con nessuno dei personaggi. Di certo non ci identifichiamo con Daisy. È un po’ come se lo spettatore fosse l’ennesimo ospite di Minnie, un testimone silente del teatro di sangue e sotterfugi che si svolge anche a suo beneficio. Probabilmente solo la potenza dell’investigazione e del conseguente ardore punitivo di Marquis ci pone nelle condizioni di assumere il suo punto di vista.

Quando Mulvey parlava di voyeurismo sadico, faceva riferimento ad un modello privilegiato della narrazione. Il sadismo che deriva dall’investigazione della donna, per accertarne la colpa originaria – la minaccia della castrazione – e dalla sua punizione, ha bisogno di una storia, di un tempo lineare in cui compiersi. È qui la legge, per quanto immorale sia, che legittima gli uomini di The Hateful Eight ad assoggettare Daisy, che viene investigata e punita, fino all’esasperato finale.

Come una figlia, come una bestia

Nella prima parte del film, vediamo John trattare Daisy con atteggiamenti contrastanti. C’è spesso un gioco di sguardi tra di loro: John si rivolge a Daisy in cerca di conferma riguardo quello che dicono gli altri personaggi, e Daisy fa lo stesso in altri contesti. È come se ognuno rappresentasse per l’altro l’appiglio umano a cui aggrapparsi. Spesso sono complici, e sghignazzano insieme delle medesime situazioni, come due amici di bevute. Altrettanto spesso, però, John la colpisce, la insulta, la deride, la sballotta. Se la riconosce in quanto donna, è solo per mostrare la sua imparzialità di fronte alla giustizia. È Daisy stessa, talvolta, a provocare – se non volontariamente, almeno agendo sbadatamente – le sue violente reazioni.

The Hateful Eight - Quentin Tarantino
The Hateful Eight – Quentin Tarantino

Ed è in questi casi che il suo ghignare beffardo esprime una sorta di godimento: è un riso disperato in previsione di una morte sicura, oppure uno spassarsela come di fronte a uno spettacolo che la sta intrattenendo prima della certa liberazione? Più e più volte, Daisy è legata a doppio nodo con il basso corporeo e l’infantile. Nella diligenza si tocca la bocca, facendo cenno a John, come un animale che ha fame e usa l’unico modo che ha per farsi notare dal padrone, o come un bambino, che non ha ancora la parola come strumento di espressione. Ed è John stesso a trattarla in modo paternalistico, facendole piccole concessioni: le offre da bere, la aiuta a scendere dalla carrozza, le toglie le manette per mangiare.

Un alone comico aleggia sul personaggio di Domergue, derivante dalla sua estraneità esibita di fronte a tutto quello che di atroce le succede, dalla leggerezza con cui agisce, poco lungimirante sulle conseguenze. Come dimenticare la ciotola di stufato fumante che la Leigh si ritrova rovesciata in testa, dopo aver riso sguaiatamente alla rivelazione della falsità della lettera di Lincoln? Ricordiamo anche, però, che prima, premuroso, John le aveva pulito la bocca come ad un bebè. Quando John presenta ufficialmente Domergue agli ospiti di Minnie – come se già non la conoscessero – lei sdrammatizza il tutto: fa ciao con la mano quando fa il suo nome, e mima l’impiccagione quando John rivela il destino che l’attende.

Il fatto che siano costantemente legati dalle manette, li fa sembrare mano nella mano, rafforzando questa idea di unica forma di relazione possibile tra John e un altro essere umano: la condizione di diffidenza che comporta l’andare in giro con un sacco di soldi vivente, rende il legame aguzzino-prigioniero l’unico veramente instaurabile. L’ultimo sguardo di conferma che John rivolgerà a Daisy sarà quello definitivo, relativo al suo avvelenamento. Il colpo violento in pieno volto non avrà altro risultato che farle sputare un dente e scoppiare in una macabra risata.

Prendendo il comando

La presa del comando della situazione da parte di Daisy avviene dopo la morte di Jody. Vediamo la prima vera emozione positiva in The Hateful Eight, il sorriso sul volto di Daisy non appena vede il fratello. Forse, l’unica altra occasione in cui qualcosa di diverso dall’odio, dalla vendetta o dal sospetto è venuto alla luce è stata la lettura della lettera di Lincoln da parte di John. Ma la lettera era falsa, e quindi il sentimento da essa suscitata risulta, in ultima analisi, macchiato. L’abbraccio panoramico in cui la macchina da presa la avvolge, nell’unico monologo che le viene affidato, decreta la prima e ultima possibilità che le viene data per esprimersi con la parola. Ma il controllo, in fin dei conti, non lo ha sempre parzialmente avuto?

Memorabile è la scena in cui, suonando Jim Jones at Botany Bay con la chitarra, Daisy aspetta che il caffè avvelenato faccia il suo dovere. L’aggiunta di una strofa inventata, una poco velata minaccia a John, non appena il cacciatore fa la prima sorsata, viene a sancire l’addio al suo personaggio, la piccola grande vittoria che Daisy ha ottenuto.

Ma si ha l’impressione che nella sua condizione di prigionia, di impedimento dell’azione all’ennesima potenza, Domergue si sia sempre fabbricata dei ritagli di libertà, di potere, delle parentesi in quanto soggetto, come ho cercato qui sopra di dimostrare. Nella prima metà del film, con le sue reazioni serafiche ai continui colpi, non fa che depotenziarne la portata oggettivante. È lei a riprendere il controllo – di sé e dell’altro – ogni volta che viene punita.

Non credo dunque che Tarantino sia misogino, come varie accuse al tempo avevano sostenuto. Semplicemente, ha affidato a Jennifer Jason Leigh un ruolo narrativo che lasciava poco spazio all’empowerment femminile, costringendola a ricavarsi dei luoghi risicati di espressione del sé. Una sorta di resistenza attiva nell’immobilità. Certo, la vera rivoluzione sarebbe stato lo scrivere una protagonista cacciatrice di taglie, con ammanettato al suo fianco un bistrattato Samuel L. Jackson. Ma questo è un altro film; e Tarantino, in questo senso, non possiamo affermare non abbia dato.

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