Encanto, il più atteso lungometraggio Disney del 2021, segna il traguardo del 60° Classico animato degli Studios. Diretto da Byron Howard e Jared Bush (vincitori già di un Oscar per Zootropolis), con la collaborazione di Charise Castro Smith, arriva in sala nel momento migliore e più ricco della stagione: il 24 novembre in tutto il mondo. E dal 24 dicembre si sposta gratuitamente su Disney+, preannunciandosi già come il gran successo natalizio dell’anno.
Al di là delle ottime premesse produttive, che lo rendono già una garanzia, Encanto però è in sé qualcosa di speciale. Qualcosa di più persino del solito miracolo di Natale in cui la Disney raramente fallisce.
Nel raccontare una storia universale, di crescita personale e di famiglia, infatti riesce a creare un mondo e una cultura, al contrario, specifici e irripetibili. Nell’incontro tra i due piani crea la sua magia.
Encanto, a place of wonder
A place of wonder sono le esatte parole con cui la Nonna, capostipite della famiglia Madrigal, descrive la magia che ha benedetto la sua progenie. L’incanto infatti è proprio nel luogo, nell’esatto punto in cui, anni prima, è sorta la Casita, che ora ospita e racchiude la famiglia, divenendone un membro vivo e attivo.
La magia, dunque, non appartiene ai singoli personaggi, è emanata, presente e manifesta. Appartiene al mondo e alla natura e come tale è accettata come parte essenziale della vita.
Vi ricorda qualcosa? Esatto, il Realismo magico, per lo più sudamericano: non a caso, la storia è ambientata in Colombia.
C’è un intero immaginario, letterario e antropologico, a cui il film attinge a piene mani, trasportandoci in una dimensione senza tempo, in cui si rafforza il nostro patto di illusione spettatoriale, facendoci regredire alla meraviglia infantile della favola. Allo stesso tempo, tuttavia, Encanto ce ne trascina continuamente fuori, rendendoci consapevoli del prodotto che stiamo guardando.
Temi e stile di Encanto
Lo fa innanzitutto con un umorismo complesso e autoriferito, dichiarandosi così anche un prodotto per ogni età, non solo bambini. Inoltre introduce più o meno silenziosamente temi sociali di forte attualità o rilevanza: la rappresentazione inclusiva, la salute mentale e, non ultimo, il peso psicologico delle disfunzioni familiari, che ne diventa il nucleo centrale.
In altre parole, sotto l’apparente festa gioiosa, colorata e musicale (si canta, come in quasi tutti i Classici Disney. E la colonna sonora è di Lin-Manuel Miranda), Encanto ci scaraventa addosso una sessione di psicoterapia, chiedendoci di osservare da vicino i nostri desideri, le nostre aspettative e tutta una serie di emozioni “adulte” da processare.
Tutto nasce dal personaggio di Mirabel, unica Madrigal senza alcun dono. E da una serie di domande sul senso dei doni stessi. Cosa accade quando si scopre il proprio destino? E cosa fare quando se ne è schiacciati?
Il film ci inganna costruendo tutta una prima parte sulla usuale accettazione del Sé, delle proprie unicità e diversità rispetto agli altri. Sembra andare nella solita direzione per cui alla fine, una volta “compreso il suo valore”, Mirabel riuscirà a conquistare il suo posto in un mondo da cui si sente esclusa. E invece no.
Mirabel conosce bene se stessa e riesce ad essere genuinamente felice di ciò che è e della giovane donna che sarà. È fiduciosa e sicura della sua identità: ciò che la mortifica e la spinge ad agire diversamente è l’incapacità di comunicare con la sua famiglia e la sofferenza al pensiero di deluderla.
La rigidità e la miopia con cui la Nonna custodisce l’Encanto dei Madrigal costringono infatti ogni membro a farsi carico del proprio talento magico come un fardello, senza comprenderlo e senza comprendersi. E questo fa sì che la magia della famiglia inizi a sfaldarsi fino a rischiare di scomparire per sempre.
Gli esempi cardine dati dalla storia sono per esempio quelli di Luisa e Isabela, le due sorelle maggiori di Mirabel. Entrambe protagoniste di splendidi numeri musicali in cui affiorano le loro emozioni e inizia a squarciarsi il velo che aleggia sulla Famiglia. Luisa, che ha il dono della super forza, confessa di essere più fragile di quanto sembri. Isabela, che ha il dono di far fiorire qualsiasi cosa (e per esteso quello della Bellezza), ammette di sentirsi come quegli stessi fiori che crea: effimera e costretta a una costante e inutile perfezione.
Who am I if I can’t carry it all? canta la prima, riferendosi anche alla pressione sociale che sente su di sé. I am sick of Pretty, I want True, dice poi la seconda, prima di scoprire che dando spazio anche alle emozioni più cupe riesce a creare nuove forme e nuovi colori che la rappresentano di più.
Lo scarto rispetto ai Classici precedenti
Attraverso lo specchio di Mirabel, che nel frattempo si confronta con ognuno di loro, dunque, i Madrigal iniziano a guardare il proprio riflesso e a comprendere che quel privilegio rappresentato dall’Encanto ha senso solo se vissuto in armonia con la dimensione umana e non al di sopra. Ed è qui che ricorre ancora una volta il Realismo magico e non la semplice favola magica.
In questa consapevolezza, Encanto apre la narrazione Disney a uno nuovo tipo di coming-of-age in cui forse per la prima volta si approfondisce in modo così mirato l’importanza dell’ambiente di formazione nello sviluppo dei singoli individui. Certo, Mirabel avrà il suo momento da eroina Disney, come ha tutto l’arco di avventura necessario in quanto protagonista. Il bello, tuttavia, è che il senso del film non si esaurisce lì e si frammenta in un’evoluzione collettiva e diversificata. E lascia che ogni spettatore/spettatrice colga il pezzo di cui ha più bisogno per compiere la propria.
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