Cr. Parrish Lewis/Netflix © 2023.

Prendi un po’ di Truman Show e un po’ di They Live, qualcosa di Matrix e ancora un po’ di Jackie Brown: Hanno clonato Tyrone (They Cloned Tyrone) è un estroso mix di generi cinematografici e film diversissimi tra loro che trovano un filo conduttore nella visione del regista. È così che Juel Taylor costruisce una commedia dall’estetica simil-Blaxploitation che è anche thriller e racconto sci-fi horror a sfondo sociale.

Chi è Tyrone?

In una periferia urbana indefinita, senza riferimenti geografici né temporali e nominata The Glen, tre personaggi si trovano improvvisamente legati da un evento inspiegabile. Fontaine (John Boyega) trova in un motel il nascondiglio del pimp – in pieno stile anni Settanta – Slick Charles (Jamie Foxx) da cui deve riscuotere un debito. Ancora nel parcheggio viene raggiunto da sei colpi di pistola e ucciso nell’abitacolo della sua auto. Testimone, oltre Slick Charles, è una delle sue ragazze, Yo-Yo (Teyonah Parris).

Sembrerebbe un normale regolamento di conti fra gang, se non fosse che il giorno dopo Fontaine torna per riprendersi il suo denaro, ignaro di tutto ciò che è accaduto nelle ultime ore, la sua morte compresa.

È così che inizia l’indagine di questo trio improvvisato che porterà a scoprire un complotto ai danni della popolazione afroamericana, simile in alcuni aspetti a quello raccontato nel – sempre geniale – Sorry to Bother You di Boots Riley.

Tyrone, al di là dell’ironico finale che lo spiega in modo letterale, è ogni uomo nero costretto all’immagine del ghetto, così come ogni clone del film è la personificazione costante di uno stereotipo che serve solo a semplificare la visione dominante del mondo.

A raccontarlo ancora una volta, come spesso accade nel Black cinema contemporaneo, è una visione distorta e parossistica della realtà, deformata attraverso le lenti dell’umorismo e del cinema di genere, senza che però ne vengano intaccati i contenuti e il valore di denuncia socio-culturale.

Perché Hanno clonato Tyrone merita di battere l’algoritmo

Pochissima promozione – nonostante negli Stati Uniti abbia avuto anche una breve finestra di uscita al cinema – e tanto passaparola, a partire dal tweet di grande apprezzamento dedicato dal regista Barry Jenkins a quest’opera prima: Hanno clonato Tyrone non è uno di quei prodotti su cui Netflix ha deciso di puntare, eppure è fra i migliori dell’anno sulla piattaforma.

Il motivo principale per cui merita di rompere il vostro algoritmo è la sua particolare estetica, studiata con cura da Juel Taylor per sembrare familiare ma mai del tutto definita: come parte di un ricordo. È così che lo stile di vita e l’abbigliamento di Fontaine ricordano le gang degli anni Novanta, ma le pellicce, gli anelli e l’acconciatura di Slick Charles riportano subito agli anni Settanta, come gli outfit di Yo-Yo alla Blaxploitation e alle sue successive parodie.

Persino la fotografia (di Ken Seng) inganna il pubblico trasformando le riprese digitali nella grana della pellicola, grazie a un filtro, così che tutto il film abbia quell’aspetto pastoso e retro dell’analogico, nonostante gli esperimenti futuristici al centro della trama.

Alla vaghezza sensoriale e temporale rispondono scelte estetiche così decise e audaci da rimanere impresse come l’aspetto migliore di Hanno clonato Tyrone, ma il suo messaggio, da non sottovalutare, continuerà a serpeggiare nei vostri pensieri a lungo dopo la visione.

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