Garance Marillier in una scena di Raw (Julia Docournau, 2016)
Garance Marillier in una scena di Raw (© 2016 Petit Film – Rouge International – Frakas Productions)

È difficile mantenere un contegno spettatoriale sobrio di fronte ai film di Julia Ducournau. Sono progettati per suscitare una forte immedesimazione sensoriale, per far ridere e accapponare la pelle con uno scarto netto di qualche inquadratura. Se ne esce pesti ma entusiasti, a patto di voler accogliere la tempesta emotiva che accompagna le protagoniste nel loro percorso di individuazione traumatica. In caso contrario, niente paura: il circolo dei critici senescenti è sempre disponibile a ridere della prossima battuta a tema donne&motori.

Junior, Raw e Titane sono tre speculazioni distinte sull’esperienza umana, centrate sul corpo e sui suoi limiti – ma sono interpretabili anche come esplorazioni di fasi successive dello sviluppo individuale (pubertà, prima vita adulta, maternità). La presenza costante di Garance Marillier, ribattezzata Justine per tre volte, ci parla di una grande necessità di identificazione tra funzione narrativa e personalità attoriale. Eppure sarebbe un errore accorpare le tre storie sotto un’unica traiettoria, perché – parafrasando Tolstoj – ogni identità mutante è infelice a suo modo.

Derive body horror

Ducournau ha definito Titane “un film ottimista” e, per quanto possa sembrare paradossale, la stessa qualità è applicabile anche a Junior e Raw. Questo perché l’uso che la regista fa del body horror è profondamente diverso da quello classico cronenberghiano. Lì la mutazione corporea è la manifestazione fisica della progressiva separazione dell’individuo dal tessuto sociale a cui appartiene, e innesca una psicosi che termina con l’autodistruzione. Qui la mutazione corporea è la chiave di un percorso di differenziazione estrema che non culmina nell’autodistruzione, ma nell’accesso a un livello ulteriore di autocoscienza che permette una relazione autentica col contesto circostante – anch’esso profondamente squilibrato.

Cambiando la qualità della mutazione cambia anche la critica sottesa al mondo che l’ha generata. Dove la mutazione individuale è il sintomo visibile di un malessere sociale, il singolo viene sacrificato per mantenere la coerenza illusoria del sistema. Dove la mutazione prolifera incontrollabile e la pretesa di sanità è solo una facciata performativa, spingere i personaggi al limite estremo è l’unico modo per risignificarne filosoficamente l’esperienza umana, nella sua doppia manifestazione di corpo e coscienza. Il grande pregio dei film di Ducournau è quello di innescare una riflessione sul senso dell’esistenza a partire da un cinema essenzialmente materico – con tanti cari saluti al Logos e alle sue millenarie pretese rappresentative.

Garance Marillier in una scena di Raw (Julia Ducournau, 2016)
Garance Marillier in una scena di Raw (© 2016 Petit Film – Rouge International – Frakas Productions)

Epidermide

Julia Ducornau passa l’infanzia a leggere i libri dei genitori: ginecologa la madre, dermatologo il padre. La familiarità precoce che acquisisce col corpo e con le sue manifestazioni patologiche sta alla base dell’esplorazione sensoriale iperrealista dei suoi film. La pelle, in particolare, è la prima barriera corporea ad essere infranta. In Junior si stacca in grosse placche umide; mostra una reazione allergica alla carne cruda in Raw; in Titane si lacera e lascia affiorare il metallo sottostante. La mutazione epidermica non è (quasi) mai plateale e insistita, ma esplorata in solitudine e rivelata con reticenza.

Questo trattamento di sottile de-mostrificazione è costantemente all’opera, e diventa evidente nelle scene clou in cui la mutazione si manifesta agli altri personaggi. Nessuno scappa, nessuno muore, non finisce il mondo: se l’orrore è sostenibile, la rimozione non è più l’unica reazione possibile. È anzi il momento in cui capiamo la reale portata delle relazioni rappresentate: quello che gli altri sono disposti ad accettare è la misura di quanto bisogno abbiano di quel rapporto.

Horror, commedia e dramma

Il ricorso alla grammatica orrorifica svolge due funzioni principali. La prima: rimbalzare all’ingresso chi non è disponibile al travaglio emotivo. La seconda: imprimere alle convenzioni di genere un moto divergente per contaminarle con la commedia e il dramma. A livello macroscopico le trame rientrano in pieno nell’inverosimiglianza che ci si aspetta da un genere antinaturalistico come l’horror. Junior: una brutta anatroccola diventa un cigno, ma con una pelle che si scioglie in pozzanghere di poltiglia bianca. Raw: una studentessa vegetariana viene costretta a mangiare carne cruda e si scopre cannibale. Titane: una serial killer rimane incinta di un’automobile. Nessuna di queste premesse ci lascia intravedere altro che brutalità visiva con occasionali incursioni nello humor nero.

A livello di scrittura delle singole scene le priorità cambiano: qui Ducournau costruisce dei momenti di paradossale intimità domestica molto convincenti nella loro ambivalenza. Il rapporto tra Justine e Alexia in Raw, e tra Alexia e Vincent in Titane, è allo stesso tempo disturbante e commovente. La dinamica in atto è un conflitto tra fusionalità ed individuazione, che mette alla prova la capacità delle protagoniste di affermare la propria identità e accogliere il legame con l’alterità. Ogni sequenza, per quanto visivamente devastante, non esaurisce il suo potenziale in una messa in scena di violenza chirurgica. Rappresenta piuttosto una progressione libidica verso l’accettazione radicale dell’altro. Amore è la doppia negazione che afferma una psicosi superiore: superiore perché finalmente condivisa.

Agathe Rousselle in una scena di Titane (Julia Ducornau, 2021)
Agathe Rousselle in una scena di Titane (© Carole Bethuel)

Attraversare i generi

Ducournau sceneggiatrice è attentissima ad evitare strade già battute, al punto che l’accumulo di situazioni e toni disparati possono disorientare chi cerca un appiglio narrativo forte per sopravvivere alle continue soverchierie emotive. Questo è un limite, ma anche uno stile che l’autrice rivendica per sé, e che sembra aver subito una decisa accelerazione con Titane. Il fatto che un cinema così ibrido e fluido abbia incontrato il favore di Cannes può essere un caso fortuito o una consapevole presa di posizione – o, più probabilmente, una combinazione randomica dei due. Di certo un’ottima sorpresa per chi ama la sensazione di furioso lavorìo cerebrale che segue alla visione di film autenticamente innovativi.

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