La moglie di Tchaikovsky, I Wonder Pictures in collaborazione con Unipol Biografilm Collection
La moglie di Tchaikovsky, I Wonder Pictures in collaborazione con Unipol Biografilm Collection

È una classica storia di amore e morte (dove la congiunzione indica due realtà che si tengono indissolubilmente per mano), La moglie di Tchaikovsky (Tchaikovsky’s Wife, in sala dal 5 ottobre per I Wonder Pictures dopo l’anteprima in concorso a Cannes 2022). Ma a raccontarcela è una delle più incisive e dissonanti voci del cinema russo contemporaneo, quella di Kirill Serebrennikov.

Esule in Germania per la sua opposizione alla guerra in Ucraina, dopo essersi più volte schierato contro le politiche autoritarie, militariste e omofobe di Vladimir Putin subendo in patria un arresto e una condanna (per accuse, legate all’uso di fondi pubblici, da lui definite «una follia»), il regista torna (dopo Summer e Petrov’s Flu) a parlare di artisti e società repressiva.

Per farlo, sceglie un’istituzione della sua cultura, il compositore Pyotr Ilyich Tchaikovsky (vissuto tra 1840 e 1893), sottraendolo all’agiografia normalizzante del potere. Un po’ come aveva fatto l’inglese Ken Russell nel memorabile L’altra faccia dell’amore (The Music Lovers). Ma se lì avevamo l’orgia barocca e vitalistica di feste, balli, colori e note di un 1970 esploso nel cuore del XIX secolo, il film di Serebrennikov ci immerge nella cappa plumbea di una Russia che è solo mortifera e decadente.

Optando stavolta per un punto di vista privilegiato, quello di Antonina Ivanovna Miliukova, sposa del musicista mai davvero corrisposta e poi ripudiata, che finirà ricoverata in manicomio dove si spegnerà nel 1917 della Rivoluzione d’ottobre. Alla consorte del genio, bistrattata e oscurata prima da un ordine sociale in cui (ricorda il film) le donne erano solo nomi sui passaporti dei mariti, quindi da una vulgata che l’ha ridotta a mitomane superficiale incapace di comprendere la grandezza del coniuge, Srebrennikov dedica questo thriller delle pulsioni. Senza farne, a scapito delle apparenze, un’eroina femminista, ma l’antieroina di una destabilizzante parabola di ossessioni e rimozioni.

Qualcosa che non si ha (a qualcuno che non lo vuole)

Incomincia, non casualmente, da un funerale (quello dello sposo) la vicenda della Moglie di Tchaikovsky, in un incipit che racchiude efficacemente l’intero film, con movimenti di macchina fra stanze reali e mentali, dove la ricostruzione storica si trasfigura nel sogno-incubo psicanalitico dell’estremo, impossibile redde rationem fra marito e moglie. La cui dinamica (auto)distruttiva sembra effettivamente uscita dalla pessimistica massima di Jacques Lacan per cui l’amore è «dare qualcosa che non si ha a una persona che non lo vuole».

Non vuole l’amore di una donna, Pyotr Ilyich Tchaikovsky (Odin Lund Biron), insegnante in conservatorio e compositore in ascesa (non senza problemi finanziari) sulla scena moscovita del 1876. Ma soprattutto, omosessuale in un Paese che (allora come oggi, e non certo l’unico) vieta di vivere apertamente chi si è. Dal canto suo, non ha molto da offrire a colui che non può amarla la giovane Antonina Miliukova (Alyona Mikhailova): né una dote economica che resista alla prova dei fatti, né la possibilità di abbracciare e fronteggiare sino in fondo la tracimante personalità artistica dell’altro – complice la difficoltà, per un’aspirante musicista come lei, di avere accesso a preparazione e riconoscimento pari a quelli degli uomini.

Ma allora perché quel matrimonio su cui da subito incombono presagi infausti degni del classico Rapacità di Eric von Stroheim, dall’anello che fatica a infilarsi al dito di lui alle carrozze dei due che dopo la cerimonia partono in direzioni opposte? Forse perché Antonina, più del musicista prodigioso di cui non sa poi così tanto e dell’uomo che ancora non conosce a fondo, ha scorto in lui la ferita di un’identità considerata anomala («quello che mi piace in voi non lo trovo in altri», dice al corteggiato). Forse perché Pyotr, in un legame che avverte potrà essere soltanto platonico, vede la possibilità di redimere la sua immagine agli occhi della società e di sé stesso, “purificandosi” da una colpa che colpa non è, e non può essere rimossa senza resistenze e danni collaterali.

E infatti, mentre la creatività s’impantana e le compagnie del passato bohémien di Tchaikovsky continuano a premere sulla coppia, suggerendone la natura posticcia e precaria, la contraddizione esplode. Nel peggiore dei modi, e in un rifiuto incrociato e irrisolvibile, quello di lui a rivedere ancora la sposa, e quello di lei ad accettare la fine della relazione.

Due infelicità asimmetriche come asimmetrica è la condizione tra maschile e femminile in un regime patriarcale: se infatti il musicista conoscerà (almeno) l’ascesa al successo, l’altra sprofonda nella progressiva perdita di contatto con una realtà ostile. Fra tentativi frustrati di mantenere un legame che l’altro vuole recidere, biasimo e umiliazioni per aver “osato” avvicinarsi al “sole” del genio (e a stare troppo vicini al sole ci si brucia, le viene detto), figli avuti con lo squallido avvocato-amante e dati in orfanotrofio. La sua miseria è figlia di una società che vieta a una donna di essere altro che il riflesso di un uomo. Ma c’è anche dell’altro.

La moglie di Tchaikovsky, I Wonder Pictures in collaborazione con Unipol Biografilm Collection

L’inferno della società, gli inferi delle pulsioni

Se la critica di Serebrennikov alle ingiustizie della Russia di allora (e di oggi) è evidente e prosegue, dietro i costumi d’epoca, un discorso caro al regista di Parola di Dio, nondimeno il film sembra resistere a una lettura esclusivamente storico-sociologica.

Perché nella tragica vicenda di Antonina Miliukova è difficile separare la grammatica delle convenzioni oppressive dall’alfabeto delle pulsioni freudianamente divise fra eros e thanatos. È il secondo, non meno del primo, a gravare come un fato ineluttabile sulle scelte (e non-scelte) dei personaggi (e della protagonista in particolare), inquadrati frequentemente dall’alto, come sovrastati da un funesto percorso già scritto.

Così Antonina rivendica come suo «destino» il continuare ad essere la “moglie di Tchaikovsky”, rigettando anche l’alternativa di un divorzio (con risarcimento) che le consentirebbe di risposarsi, previa firma di una dichiarazione sull’infedeltà dell’ex coniuge. La donna si inoltra così su un percorso che la porta ad essere sempre più vittima e carnefice di sé stessa, negandosi di superare un attaccamento impossibile e tossico («Sei mio e di nessun altro, nessuno può portarti via da me», dice a Pyotr).

Allo stesso modo, il film mantiene le sue premesse iniziali (con)fondendo ambiguamente affresco d’epoca e vibrazioni allucinate dell’Es. Con simbolismi quasi buñueliani (le onnipresenti mosche ronzanti intorno a un ménage che odora da subito di cadavere), fino a un’ultima, luttuosa parte tra incendi (anche) interiori, pianoforti-feticci abbandonati e onirici balletti fra corpi maschili nudi. Una corrosione degli appigli reali(stici), per noi e per lei, restituita dall’interpretazione di Mikhaylova, che ha girato le scene in ordine cronologico, a voler meglio restituire la progressività di una discesa agli inferi. Quelli del mondo in cui si è gettati, e quelli del mondo che ribolle dentro.

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Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.

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