Nan Goldin
Photo Courtesy of Nan Goldin. Credits: I Wonder Pictures

Con All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras la figura di Nan Goldin arriva anche a chi non ha mai visto un suo scatto o la conosce superficialmente solo grazie a qualche manuale di fotografia. Il documentario a lei dedicato, ma soprattutto al proseguimento del suo lavoro come artista e testimone del presente, si è aggiudicato il Leone d’Oro alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia ed è candidato agli Oscar e ai BAFTA come Miglior documentario.

Fotografie, filmati inediti e interviste scorrono e rivivono all’interno del film che celebra uno degli sguardi più importanti del secolo scorso e di questo, in cui la lotta sociale per i diritti umani non smette di essere combattuta attraverso il gesto artistico.

Ma chi è Nan Goldin? Chi è la fotografa protagonista di All the Beauty and the Bloodshed?

Il bisogno di fotografare

Nan Goldin nasce a Washington il 12 settembre 1953. Il suo vero nome è Nancy Goldin ed è cresciuta in un sobborgo di Boston fino all’adolescenza. Il bisogno di fotografare lo attribuisce, anche nel documentario, al suicidio della sorella Barbara Holly Goldin avvenuto nel 1965. Una scomparsa dolorosa che solo nel corso degli anni ha saputo accettare, come una ferita quella perdita ha portato al sangue e alla sofferenza, indirizzandola però verso un linguaggio artistico che le ha permesso di lasciare che il dolore si riassorbisse: la fotografia. Dai diciotto anni Goldin inizia a fotografare dando una versione personale della sua storia, svincolata dai pensieri e dai preconcetti altrui (come era successo a sua sorella).

Gli scatti di Goldin nascono dal privato della donna, da relazioni intraprese nel corso di esperienze che l’hanno formata prima come essere umano e solo in seguito come artista. Conosce chi fotografa, non si tratta di sconosciuti incontrati per caso, ma sono amici, amanti, colleghi di lavoro, spiriti affini che non fanno altro che confermarle quanto quella testimonianza prettamente “consenziente” sia necessaria per mostrare realtà solitamente oscurate e nascoste.

Photo Courtesy of Nan Goldin. Credits: I Wonder Pictures

Quando ci si trova di fronte ad uno scatto di Goldin si viene assaliti da una calda ondata di intimità, che si racconta attraverso l’istante cristallizzato. Non è l’esterno ad attirarne la curiosità: lei ricerca gli interni che trasudano vita vissuta, accettazione, ricerca della propria identità. Come scrive Nicholas Mirzoeff, teorico della cultura visiva e professore presso il Dipartimento di Media, Cultura e Comunicazione della New York University, riprendendo anche gli studi di Mitchell, Nan Goldin può essere forse considerata la prima post-fotografa. La post-fotografia non si impone più di rappresentare “il mondo”, ma si sposta verso una pratica libera dalla responsabilità di rappresentare la realtà.

Il suo lavoro cambia la natura della fotografia stessa da un atto di un voyeur a quello di un testimone; un testimone partecipa fisicamente alla scena e poi la riporta, mentre il voyeur cerca di vedere senza essere visto.

Introduzione alla cultura visuale, Nicholas Mirzoeff

I soggetti di Nan Goldin

La prima a mettersi in gioco è lei. Immagini molto private della sua vita si alternano a quelle altrettanto private della seconda famiglia che ha trovato fuori da casa dei genitori. Giovani accomunati da una sfiducia dilagante nel futuro, aspiranti artisti, travestiti, bisessuali, fratelli e sorelle ritrovati. Ognuno libero in una sperimentazione continua che li porta alla libertà sessuale senza dover essere prigionieri di ruoli che non fanno parte di loro, ma anche a quella di droghe di tutti i tipi. Più di un gruppo di amici, i soggetti di Goldin sono parte di una comunità, la quale è protagonista di una documentazione che ne testimonia la presenza, senza che quella voglia di essere “nel momento” si perda nella memoria. La vita di queste persone, già fuori dal comune per una società che non ne contempla la presenza, attraverso la sua fissazione diventa un simbolo.

La narrazione per immagini di Nan Goldin rivela una testimonianza di cui quella comunità ha bisogno, per guardarsi e per essere guardata. Atti intimi come il sesso vengono ripresi, immortalati, rivelati. Osservare per lei è anche essere osservati, come per uno dei suoi lavori più emblematici, Ballata della dipendenza sessuale, in cui per prima mostra le conseguenze della sua dipendenza sessuale con Autoritratto, un mese dopo essere stata picchiata (1984).

La violenza fa parte dell’esperienza del vivere, come l’amore. La bellezza emerge dalle stanze spoglie di appartamenti berlinesi e dai lividi che stanno violacei come macchie di pittura sulla pelle, esporli in una serie di scatti è voglia di non dimenticare, differente dalla voglia di ricordare. Il significato che si diffonde attraverso quel tipo di immagini diventa un senso più ampio che abbraccia la società e ragiona sull’umano e sulla femminilità in particolare. Ogni singola polaroid che Goldin raccoglie ha un senso sociale, poiché il personale si eleva ad un livello maggiore, creando una comunicazione bilaterale tra artista e spettatore.

Photo Courtesy of Nan Goldin. Credits: I Wonder Pictures

Testimoniare la vita, testimoniare la scomparsa

Nel 1989 Nan Goldin partecipa ad un’esposizione dedicata alle vittime dell’AIDS. Testimonianze: contro la nostra scomparsa è, in linea al suo modo di concepire la fotografia, una mostra personale in cui gli artisti coinvolti conoscono i volti e le storie esposti dolorosamente da vicino.

In molti casi sono amici di Goldin, come l’amica Cookie, della quale documentò l’oscura discesa nella malattia. Ancora una volta le immagini della sua comunità suscitano polemica da parte di chi vorrebbe cancellarne le tracce. La mostra in questione, ostacolata da molte autorità pubbliche, porta il lavoro di Goldin ad un livello successivo: la perdita non viene più allontanata “fotografando”, perché molte persone che amava sono scomparse a causa dell’AIDS, così quel racconto di emarginati parte della controcultura si trasforma, arrivando al conclamato impegno degli ultimi anni dove il legame tra arte e politica è un bisogno non più trascurabile.

In All the Beauty and the Bloodshed la regista segue le azioni, artistiche e legali, contro la famiglia Sackler che dietro alla rispettabile facciata di benefattrice dei più importanti musei del mondo è responsabile della produzione di farmaci che creano dipendenza di cui la stessa Nan Goldin è stata vittima. La storia dominante americana è ancora il bersaglio di azioni che stavolta travalicano la fotografia e si concretizzano in performance. Assieme al gruppo P.A.I.N., fondato da Goldin per togliere lo stigma sulla dipendenza e affrontare la famiglia di “benefattori”, l’artista continua a parlarci di scomparsa puntando i riflettori sulle vittime del sistema, senza limitarsi ad un’esposizione come nel 1989.

La bellezza di immagini che lacerano come proiettili d’argento

Tappezzerie strappate e poster incollati al muro sono alcuni degli scenari che nelle fotografie di Goldin accolgono azioni quotidiane. Il susseguirsi di occhi, labbra, corpi, feste, momenti costituiscono una delle produzioni fotografiche più significative per comprendere l’era postmoderna che arriva all’osservatore come archivio suddiviso in sequenze, inquadrature, personaggi mancati per un film underground in cui gli eroi sono i primi a perdere.

E vorrete averne di più, conoscere le parole pronunciate davanti allo specchio o dopo un litigio. Le fotografie di Nan Goldin tridimensionalmente si aprono in una narrazione quasi cinematografica della società dietro alla società, sono immagini in cui vi sembrerà di percepire un vociare reale o la musica, il pianto di qualcuno. Sono immagini che fingono un distacco pretendendo la massima attenzione per quelle vite, prima tra tutte quelle di Nan e di sua sorella.

Photo Courtesy of Nan Goldin. Credits: I Wonder Pictures

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Silvia Pezzopane
Ho una passione smodata per i film in grado di cambiare la mia prospettiva, oltre ad una laurea al DAMS e un’intermittente frequentazione dei set in veste di costumista. Mi piace stare nel mezzo perché la teoria non esclude la pratica, e il cinema nella sua interezza merita un’occasione per emozionarci. Per questo credo fermamente che non abbia senso dividersi tra Il Settimo Sigillo e Dirty Dancing: tutto è danza, tutto è movimento. Amo le commedie romantiche anni ’90, il filone Queer, la poetica della cinematografia tedesca negli anni del muro. Sono attratta dalle dinamiche di genere nella narrazione, dal conflitto interiore che diventa scontro per immagini, dalle nuove frontiere scientifiche applicate all'intrattenimento. È fondamentale mostrare, e scriverne, ogni giorno come fosse una battaglia.

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