Di fronte a storie di straordinario eroismo, di sfrontato altruismo e inequivocabile spessore morale, viene inevitabile dirsi “io non potrei mai, sono solo una persona comune”. A ribaltare (o almeno provarci) questo ingannevole modo di pensare arriva One Life, film di James Hawes, dal 21 dicembre al cinema.
La trama
Storia basata su fatti realmente accaduti e raccontati nella biografia If It’s Not Impossible… The Life of Sir Nicholas Winton, One Life racconta l’incredibile impresa di Nicholas Winton (Anthony Hopkins), un funzionario di borsa britannico che allo scoppio della Seconda guerra mondiale riuscì a salvare 669 bambini facendoli fuggire dalla Cecoslovacchia a bordo di treni diretti in Gran Bretagna, attraverso un’operazione passata alla storia come Kindertransport.
Alternandosi tra anni ’80 e anni ’30, la storia di Nicky e dei suoi “bambini” ripercorre le fila di una vita come tante, che come tante non è, fino a rispondere alla domanda: Cosa ne è stato di quelle vite salvate?
La “banalità” del bene
In un anno cinematografico dominato (anche) da Oppenheimer e dalla sua esaltazione della bomba atomica e dei vincitori, spostare il focus sul lato realmente umano della guerra, sui costi in termini di vite, sulle persone effettivamente vittime di giochi di potere più grandi di loro risulta semplice e importante allo stesso tempo, come solo una grande verità sa essere.
A fare da contrappeso alla banalità del male, infatti, c’è la banalità del bene, quanto un gesto di sconsiderata bontà possa provenire da chiunque, che sia un funzionario di borsa o sua madre (Helena Bonham Carter, purtroppo in poche scene), senza screditare le difficoltà del caso e l’impegno (anche economico) che comporta, ma ponendo anche l’accento sullo sforzo individuale, su quanto sia possibilità e dovere di chiunque fare quanto in proprio potere di fronte a situazioni di ingiustizie e atrocità.
Un monito che risuona forte alla luce dei recenti scenari di guerre e genocidi a cui stiamo assistendo, che sia l’Ucraina o la Striscia di Gaza o le molte altre guerre che ancora imperversano in tutto il globo, e in cui è molto facile rifugiarsi nella calda coperta del “non potrei fare nulla per impedirlo” come modo per lavarsene le mani senza pensare realmente a cosa di utile sia in nostro potere fare.
I limiti della trasposizione
Nonostante la storia miracolosa, la commozione assicurata e il grande sottotesto di impegno sociale, One Life rimane una sfida mai realmente accettata, che decide di giocare su un terreno sicuro senza osare di più.
Tra una regia piatta e una sceneggiatura che non presta troppa attenzione a nessun personaggio in maniera realmente approfondita, il film di Hawes sembra adagiarsi fin troppo nel paragone delle gesta con quelle (più note) raccontate in Schindler’s List senza però impegnarsi davvero a dare alla luce un film strutturato, accurato, che sappia dare valore ai propri attori e al materiale trattato. Puntando tutto sulla naturale stretta al cuore che tanti primi piani di bambini costretti a fuggire da una guerra va a causare, rimane in bocca un senso amaro di incompiuto, in cui il pietismo lascia il posto a un lavoro storiografico che un personaggio interessante come Sir Nicholas Winton (e chi con lui ha collaborato) meriterebbe.
In breve
Nel corso nel film verrà pronunciata la massima “Chi salva una vita salva il mondo”, ma nulla dice in merito ai fantasmi che rimangono delle vite non salvate, del senso di impotenza di fronte all’inevitabile bruttezza della guerra. Seppur in maniera semplicistica e pietistica, One Life prova a porre l’accento su questo, su quanto si possa fare e quanto no, provando a dare la spinta verso il “di più”, pur senza sfruttare appieno il gigantesco mezzo che è il cinema.
Una giocata persa da un punto di vista stilistico che però si salva grazie alla potenza del suo messaggio.
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