Pearl Jam - Foto di Alessio Tommasoli
Pearl Jam - Foto di Alessio Tommasoli

2 anni. 24 mesi, più di 700 giorni: tantissimi, soprattutto se avanzano molto più lentamente, in mezzo alla pandemia e al lockdown. Molti non ce l’hanno fatta a vederne la fine, molti non ce l’anno fatta ad arrivare finalmente qui, a questo concerto, dopo aver comprato il biglietto prima di tutto, nel 2019. Come in una tragedia scritta male, avevano un appuntamento e se ne sono andati prima, travolti da un assurdo destino. 

Lo sappiamo tutti, noi 60mila presenti all’autodromo di Imola, unica data italiana, ognuno di noi ha dentro il viso di chi non c’è, e lo sanno anche i Pearl Jam, anche loro hanno i propri volti dentro. E per questo, appena salgono sul palco, non dicono nulla, ma suonano: Courdroy, Even Flow, Why Go, Eldery Woman Behind the Counter in a Small Town. Una scaletta mozzafiato realizzata con l’intensità di chi vuole creare una catarsi fatta di musica. 

Il pubblico dei Pearl Jam

E solo alla fine di questa serie, quando tutti noi 60mila sappiamo esattamente dove siamo e perché siamo qui, solo adesso Eddie inizia a parlare. Come fa sempre, tra un timido italiano e l’inglese. Dice quello che vorremmo dire noi, suona quello che vogliamo sentire e canta ciò che vogliamo cantare. Tutto, perché è un concerto infinito, 2 ore e mezza senza alcun risparmio. Tutti, anche loro, dobbiamo sfogarsi dopo 2 anni di immobilità.

Eddie Vedder dice quello che già percepiamo, che noi 60mila siamo il componente più potente del gruppo. E in questa frase non c’è alcuna retorica, lo sappiamo, basta ascoltarci, mentre sosteniamo i cori, urliamo con lui, imitiamo gli assoli di Gossard e Mccready. E ancora di più, lo sappiamo sentendo le nostre lacrime scendere copiose dagli occhi mentre cantiamo Come back, con il volto in testa di ognuno di quelli che non ce l’hanno fatta. Quanti e quanto piangiamo, dall’inizio alla fine del brano, che finisce senza altre parole per aprire alla rabbia di Save you, con cui liberarci, e asciugare saltando gli occhi bagnati. . 

C’è una simbiosi perfetta: i Pearl Jam sanno esattamente quello che vogliamo. Forse perché semplicemente è quello che vogliono anche loro.

Aspettare il live

È il loro quinto concerto al quale partecipo. Il primo ormai è stato 16 anni fa e non era una data unica, ma due: Verona e Pistoia, perché avevo l’entusiasmo di chi riceve improvvisamente la possibilità di vedere dal vivo i propri miti. Un entusiasmo che mi aveva portato a comprare anche altre due date, quattro in tutto, che poi razionalmente vendetti. Ho rimpianto di averlo fatto, subito dopo Verona, prima ancora di Pistoia. Ecco perché oggi, nonostante i due anni di mezzo, quegli interminabili 24 mesi che hanno “falciato” molti di noi, ho/abbiamo resistito tanto. E siamo arrivati fin qui,  sapendo che chi di noi non ha resistito abbastanza, non lo ha fatto per scelta.

E ci sono anche loro stasera. Gridiamo, saltiamo, cantiamo anche per chi manca, fino a sfinirci, come si sfinisce la band sul palco, fino ad applaudire insieme a noi, alla fine della musica, per 5, 10 minuti, senza smettere. Tutti coscienti che l’applauso sta andando oltre quello spazio e quel tempo, illuminato dai lampioni accesi alla fine dello spettacolo.

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.

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