Ovvero quel momento in cui temiamo il peggio per l’afroamericano che sta guidando
Inizia come tutte le altre, la terza puntata della prima stagione di Queer Eye (per prepararmi ai nuovi episodi appena usciti sto recuperando qua e là puntate perse): ci sono i Fab Five in viaggio con il loro SUV gigantesco che si preparano a rivoluzionare la vita del nuovo protagonista nominato. L’atmosfera è leggera, come se fosse l’inizio di un musical ambientato in un accogliente stato del sud. Scherzano e ridono introducendoci nell’avventura che li/ci attende, finché un imprevisto irrompe generando panico tra i presentatori. Il mood si trasforma in qualcosa di completamente opposto che dà vita ad uno dei momenti più intensi e complessi di tutta la storia del programma.
Per chi non conoscesse Queer Eye faccio un piccolo appunto: è un programma televisivo in cui cinque ragazzi gay, ognuno esperto in un settore specifico (moda, design, grooming, culture, food&wine) realizzano un totale restyling di colui (o colei) che viene nominato da una persona vicina (come una sorella, un figlio, un amico). In circa 45 minuti lo aiutano a cambiare abbigliamento, taglio di capelli, mobili e abitudini, ma non solo. Lavorano sulla persona, creando un contatto umano. Rientra nel format makeover già visto con altri programmi simili; le quattro stagioni di Plain Jane andate in onda su Mtv, o il nostro più vicino Ma come ti vesti? Lo stesso Queer Eye è un reboot della serie del 2003 Queer Eye for the Straight Guy.
Solo uno stupido scherzo
È un programma che di sicuro non piace a tutti, e non sono qui per consigliarlo, ma più che altro vorrei soffermarmi sulla puntata che ieri mi ha fatto tremare: “Dega Don’t”. I cinque sono in viaggio per Winder, Georgia, con i panorami verdi che li circondano e la musica soul-funk come soundtrack. Alla guida c’è Karamo Brown, tra loro è l’esperto di “cultura”, anche se lui preferisce essere definito life coach, unico afroamericano tra i conduttori. Improvvisamente si sentono le sirene della polizia e vediamo una macchina sempre più vicina: li sta facendo accostare, i cinque continuano a scherzare, “Ecco perché dovrei guidare io” dice Bobby, “Qui c’è gente di colore!” esclama Tan, l’esperto di moda britannico pakistano, imitando un buffo accento del sud, ma dall’espressione del guidatore si capisce che non c’è nulla di costruito in precedenza.
Karamo accosta e l’agente Ford gli chiede la patente, ma lui non ce l’ha, “perché stiamo girando un programma televisivo” gli riferisce, ed è ovviamente un problema per il poliziotto, tutti sono in allerta e la situazione cambia tono. Jonathan, esperto di grooming, tira fuori lo smartphone per filmare ciò che di lì a poco potrebbe accadere. Karamo viene fatto scendere dalla macchina per dare spiegazioni, che programma stanno girando e di che si tratta. Sembra tutto uno scherzo di cattivissimo gusto per lo spettatore (che ha la sensazione di aver sbagliato programma), e invece lo scherzo è per i 5: il poliziotto rivela di aver nominato lui il suo amico Cory, e tutti tirano un sospiro di sollievo scoppiando in risate nervose.
Assistiamo ad un cambio di rotta repentino dove un evento che dovrebbe essere visto come un gioco appare più come una messa in scena poco divertente sugli eventi razzisti e violenti che negli Stati Uniti non smettono di moltiplicarsi. Si capisce in seguito perché gli autori hanno deciso di lasciarlo, ma non è questo il punto. Dopo questo evento sia Karamo Brown che Tan France non volevano continuare con le riprese. Solo Bobby Berk, esperto di design, era a conoscenza della costruzione dell’evento. Doveva essere una scena simpatica, ma la sorte di avere un afroamericano alla guida quella mattina ha innescato un cortocircuito pericoloso in un periodo in cui la brutalità della polizia è manifesta.
È una circostanza quasi familiare per noi: fa parte del nostro immaginario e tiene i suoi artigli ben piantati per non dissolversi con facilità. Proprio perché la conosciamo bene abbiamo paura delle conseguenze, e la possibilità di un lieto fine non ci sfiora nemmeno. E quando un evento del genere inizia ad apparirci scontato vuol dire che la storia non è andata come doveva. Un’equazione diabolica ci porta a prevedere la morte violenta di un guidatore di colore costretto a scendere dal suo veicolo da un poliziotto bianco: un’equazione dettata dalla spietata cecità di un sistema sbagliato da sempre.
Nel seguito della puntata di Queer Eye , dopo l’inizio turbolento, Karamo ha un confronto con l’ex marine nominato per il restyling (e vi posso assicurare che dopo quei primi 5 minuti di terrore ve ne frega meno di zero di lui e dei suoi propositi di miglioramento). I due sono in macchina e il conduttore gli racconta di suo figlio, che non voleva prendere la patente perché aveva paura di morire. I due si confrontano, si stringono la mano, ma niente mi toglie il senso di rabbia ed impotenza provata pochi minuti prima.
Una scena che si ripete
“Non si vedono molti bianchi nei reality shows in cui bisogna sopravvivere, non ci servono quelle cazzate (…) Noi possiamo provare la stessa euforia anche solo guidando con il bollo scaduto”, dice la comica Wanda Skyes nel suo speciale stand-up del 2019 Not Normal, e per quanto a questa battuta seguano delle risate è la più asciutta verità.
Assistendo a questo “scherzo” poco riuscito ciò che provo è differente dalla rabbia pura che divampa quando leggo le notizie o vedo cosa sta succedendo nel mondo. È un’emozione complessa e più sottile, che si colloca ad un livello superiore, perché si accende in un contesto protetto, come quello di Queer Eye, che guardo per rilassarmi e magari sì, commuovermi, ma mai per avere paura.
L’esigenza di mostrare i fatti più crudeli della nostra umanità in contesti relativi all’intrattenimento prima imprevisti, è il sintomo di un qualcosa che si sta radicando nella società e ribadire quindi il rispetto dei diritti umani diventa imprescindibile.
Mi si accendono istantaneamente collegamenti con altri momenti simili, descritti dal cinema e dalla serialità negli ultimi anni, non sempre sono stati drammatici, ma a volte anche ironici, agrodolci. Penso a The Hate U Give, il film, e prima romanzo scritto da Angie Thomas, del 2018, dove si ripete una scena simile, in cui un ragazzo afroamericano disarmato viene ucciso da un agente per “sbaglio”, e l’evento provoca una serie di manifestazioni che ricordano spaventosamente quelle portate avanti per giorni per la fine brutale toccata a George Floyd.
Qui ad esempio le tematiche razziste vengono affrontate in un teen movie che riesce a veicolare la paura secondo una narrazione meno incisiva, per quanto drammatica. Visualizzo poi la scena di Green Book, altro film del 2018, diretto da Peter Farrelly e tratto da una storia vera, in cui i due protagonisti, l’italo americano Tony e l’afroamericano Don, vengono fermati a causa di un coprifuoco per neri, e buttati in carcere per una notte. In questo caso è un road movie ambientato nei primi anni ’60, eppure il senso di turbamento non cambia.
Cosa hanno in comune Karamo Brown e Willy, il principe di Bel-Air
E poi ricordo una puntata di The Fresh Prince of Bel-Air, prima stagione, anno 1990, che mi lasciò stordita e triste, che appunto mette in scena la “sequenza della macchina” con delle gag divertenti che sul finale lasciano spazio però ad una riflessione profonda. Rimetto la puntata, la rivedo con gli occhi di oggi (potete trovare tutte le stagioni complete su Netflix).
Lo zio Phil deve andare ad un incontro a Palm Springs con il suo socio in affari e le relative consorti. Lo zio di Willy è afroamericano, il suo collega un bianco avvocato con maglione a rombi e scarpe da barca. Partono tutti in elicottero ma Carlton si offre per portare la macchina del collega di suo padre fino in città, con lui andrà Willy, ansioso di vedere le ultime mode in materia di mini bikini.
Viaggiando di notte, e senza mappa, i due si perdono e una volante della polizia li fa accostare. Mentre Willy è preparato a quello che potrebbe succedere, essendo cresciuto in una degradata periferia, suo cugino ne è completamente allo scuro. Non sa che deve tenere le mani in bella vista sul volante. Non sa che la cosa giusta da fare è evitare di parlare troppo. I due vengono fatti uscire dalla macchina e Willy si stende sul cofano con le gambe larghe e l’espressione rassegnata.
È un momento che mi ha sempre fatto stare male, anche perché i due verranno messi in cella per furto d’auto e non ne usciranno finché lo zio e il proprietario della vettura non faranno una scenata in centrale. Al ritorno a casa Willy prova a spiegare a suo cugino che non sarà la sua villa elegante a salvarlo, o il suo glee club a scuola, neanche il papà avvocato; perché quando si ritroverà alla guida di una bella macchina, fuori dal suo quartiere, “loro” vedranno solo una cosa, ovvero il colore della sua pelle. Carlton continua ad interrogarsi su cosa avrebbe fatto lui al posto dei poliziotti senza darsi pace, anche dopo aver parlato con suo padre dell’accaduto.
Cos’hanno in comune Willy il principe di Bel-Air e Karamo Brown? Sono entrambi afroamericani, belli, giovani, appartengono a epoche diverse, il primo non si è mai trovato a parlare di uguaglianza LGBTQ tra una puntata e l’altra mentre il secondo probabilmente ha sfoggiato outfit simili in qualche occasione, eppure sono il simbolo di una comunicazione trasversale che attraversa gli ultimi 30 anni di televisione americana portando alla luce una verità che non è solo un video di 8 minuti su un uomo che muore soffocato, ma la tradizione della storia, la ridondanza degli eventi, la sottile inquietudine che si muove sotto la superficie per poi gridarci in faccia le conseguenza di un pensiero razzista irremovibile, che ha fatto della realtà un topos inevitabile. E ho capito che non esiste nessun contesto protetto, e questo è un bene.