Rammstein - Foto di Alessio Tommasoli
Rammstein - Foto di Alessio Tommasoli

Nijmegen, o Nimega, è una piccola cittadina a un’ora e mezza di treno da Amsterdam. Un luogo sconosciuto ai più, a quelli che non conoscono la sua università, come a quelli che non sono mai stati ad un concerto organizzato nel suo parco. Un parco enorme, quasi spropositato per le dimensioni e, soprattutto, per il tipo di città che lo contiene: il classico luogo che è giusto immaginarsi quando si pensa alla provincia olandese, meno industriale e più bucolica, fatta di villette a schiera in mattoni e prati all’inglese, tra foreste sempreverdi e piste ciclabili infinite.

Un quieto paesino da fiaba, insomma: o il luogo perfetto per un film dell’orrore. O, meglio, un thriller post apocalittico, quello messo in scena dai Rammstein, lo scorso 5 luglio.

Un concerto nel parco (con qualche sorpresa)

Con un sole inusuale per i Paesi Bassi (anche all’inizio di luglio, ve lo assicuro), 65 mila persone invadono questo paesino di 50 mila anime, ritrovandosi nel suo immenso parco. Ma, come detto, il concerto non è certo di Cristina D’avena, e forse questo spaventa il Comune, convincendolo a chiudere la stazione un quarto d’ora prima della fine del concerto. Una scelta discutibile, presa a cose ormai fatte, che, per un attimo, ci fa rimpiangere addirittura l’organizzazione italiana. 

Ed è così che 65 mila persone “poco raccomandabili”, dovranno correre disperatamente e inutilmente verso la stazione, o bivaccare nella città dopo il live dei Rammstein.

Ma a nessuno sembra importare cosa accadrà. Decine di migliaia di magliette nere con le effigie della band tedesca accolgono i raggi di un sole che, qui, si attende solitamente per un anno intero. Eppure non oggi, non al concerto dei Rammstein, perché chiunque abbia pagato quel centinaio di euro del biglietto lo sa: è un concerto che va visto al buio.

La performance

Luci accecanti, migliaia di laser colorati, fulmini, razzi, fuochi d’artificio, incendi, fiamme, fumi, coriandoli: uno spettacolo scenografico unico, al quale si aggiunge il fantastico istrionismo della band, a partire dal cantante, pronto a cambiare volto e identità ad ogni brano. 

Ecco perché, una volta entrati in quello spiazzo gigantesco, spicca un palco incredibile. Sembra un luna park. O meglio, no, tutt’altro, è la prima, mastodontica scena del film Mad Max: fury road. Una grande sagoma di metallo scuro che ti sovrasta, facendoti sentire minuscolo, dal picco della quale, tra fuochi e fumo, si affaccia un mostro che qui non è il tiranno Immortan Joe, ma fa di tutto per sembrarlo e non essere soltanto un frontman.  

Perché, a parire dalla sua voce, Till Lindermann è Boogeyman che imperversa nel subconscio di ognuno di noi, il perturbante che libera ciò che i freni inibitori sommergono. 

E allora ecco l’incendio di una gigantesca carrozzina in mezzo al palco, l’eloquente sublimazione di chi canta Ich Hasse Kinder (io odio i bambini, brano solista di Till), ma poi sente il cuore bruciare (Mein Hertz brennt) raccontando storie agli orfani. 

Fiamme e musica per i Rammstein

Il pubblico è sommerso da una familiare confusione come è sommerso dalla scena, dai coriandoli che esplodono alle sue spalle piovendogli in testa come brandelli di carta incendiata, dalle fiamme che si accendono sulle imponenti torri avvampandolo di un calore fortissimo, dal suono inquietante dei razzi che partono dalla torre centrale del palco per schiantarsi in aria.

Il tutto sotto le note incendiarie della musica. La batteria che rulla come le macchine in una fabbrica di armi pesanti, i sintetizzatori che si sfogano nella violenza del ritmo metal, le chitarre che sibilano acute come coltelli sull’acciaio e quella voce, tremenda, maestosa e dolorosa al tempo stesso, che dà per una volta ragione alla marmorea rigidità della lingua tedesca.

C’è chi li considera un gruppo neonazista. Non è certo un’opinione folle, ma solo fondata su un giudizio affrettato. Il nazismo, come ogni totalitarismo, ha fondato la propria dottrina su una liturgia che estetizzava la politica. Ogni loro concerto è una liturgia fatta della stessa maestosa estetica. Ma senza politica. O non la stessa, almeno. Può esserci tutta la differenza del mondo tra l’identico e il simile, basta volerla guardare. 

Due ore e mezza di concerto, senza una parola. Esattamente com’è nel loro stile, quel che hanno da dire lo comunicano col loro spettacolo. D’altronde lo fanno da quasi 30 anni di carriera. Tanto da potersi permettere di essere autoreferenziali al punto di scegliere come band di apertura un duo di giovani pianiste francesi che fa loro cover.

Questi sono i Rammstein e questa è la loro estetica, la loro musica, il loro spettacolo. Una di quelle cose da vedere, anche se non si è perdutamente appassionati.

La mia curiosità

Capire se l’immobilità del pubblico sia un questione culturale olandese o teutonica, io che pensavo di dovermi proteggere da un pogo sfrenato. Magari nella data torinese del 12 luglio sarà diverso. Di sicuro, checché se ne dica dell’Italia, il Comune di Torino non chiuderà i fan dentro la città annullando i treni. Perché non sarà la stazione Termini, ma una notte alla stazione di Njmegen, gelida anche a luglio, la auguro a pochi nemici.

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.

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