Raya e l’ultimo drago © Disney Enterprises Inc. All Rights Reserved
Raya e l’ultimo drago convince a metà. Costruisce un mondo straordinario ma disperde gran parte del suo potenziale. Con una definizione lapidaria si potrebbe già descrivere così ma, dato che questa non vuole in fondo essere una stroncatura, vediamo cosa ha funzionato e cosa invece si adagia soltanto sulla sufficienza.
UN NUOVO INIZIO PER LA DISNEY
Se si guardano le produzioni degli Studios Disney negli ultimi anni, insieme a Raya (che è il 59° cosiddetto Classico) solo altri due titoli precedenti costituiscono la “New Era”: Ralph spacca Internet (2018) e Frozen II (2019). Questa nuova fase, ancora in sviluppo con almeno altri tre titoli fino al 2023, si pone l’intrinseco obiettivo di rivoluzionare la produzione animata Disney. E nonostante Raya e l’ulitmo drago sia già il terzo lungometraggio in questo senso, è forse il primo in cui la differenza si fa palpabile.
Partendo dagli aspetti innegabilmente positivi, è da lodare subito l‘incredibile impatto visivo. Il livello tecnico dell’animazione è tale infatti da sollevare la naturale domanda su come sarebbe stato guardare il film in sala. Come ben noto, cioè, a causa della chiusura obbligata degli esercenti cinematografici, la data di uscita prevista per il 5 marzo in Italia è stata trasferita sull’accesso VIP di Disney+. E dal 4 giugno, invece, il film è entrato nell’abbonamento standard della piattaforma.
Pace fatta con l’assenza della sala anche in questo caso, sono poi almeno altri tre i motivi per cui vale la pena guardare Raya e l’ultimo drago.
Kumandra, il mondo ideale
L’Universo di Raya si inserisce in una scia presente da alcuni anni nella Disney, ossia la creazione ex novo di mondi di fantasia. Dal Regno di Arendelle a Zootropolis, arrivando in questo caso a Kumandra. La ricchezza dei dettagli, la brillantezza dei colori o la plasticità della materia che compone questo mondo lascia senza fiato.
Kumandra in Raya e l’ultimo drago rappresenta inoltre sia un regno leggendario sia un tema concettuale, di unione e fratellanza. Sulle mappe ha la forma di un drago, ma l’avidità e le guerre umane l’hanno diviso in 5 parti: Zanna, Artiglio, Cuore, Dorso e Coda. Cinque componenti di un unico corpo, eppure così diverse tra loro, fanno evidente riferimento alle culture del sud-est asiatico.
L’ancoraggio ai “margini” del mondo
Un ulteriore pregio del film allora è proprio la focalizzazione su un mondo che, seppur di fantasia, ruota l’ideale planisfero fino a portare al centro ciò che solitamente è al margine della nostra visione del mondo. In altri termini, è un’importante rottura del privilegio bianco nella rappresentazione. Ed è una decisione che si rispecchia anche nella scelta delle voci originali dei personaggi principali, tutti di origine asiatica. La doppiatrice di Raya è Kelly Marie Tran (nota soprattutto per l’ultima trilogia di Star Wars), ma è la voce del drago Sisu quella più riconoscibile: l’inconfondibile Awkwafina.
Raya, coraggio ed eroismo declinato al femminile
Terzo e fondamentale aspetto positivo del film è la caratterizzazione dell’eroina. Non solo è lei stessa a presentarsi, ma si rivolge direttamente al pubblico rompendo la quarta parete già con la sua prima battuta: I know what you’re thinking: a lone rider, a dystopian world (…). [So cosa state pensando: un cavaliere solitario, un mondo distopico…]. E infatti la vediamo avanzare sullo strano e tenero destriero rotolante, Tuk Tuk, mentre racconta, in voce fuori campo, il prologo della sua storia. In Raya (e in Sisu, anch’esso un personaggio femminile) è racchiuso un doppio senso del viaggio cinematografico. A un primo livello, superficiale, è la semplice missione che la costringe a esplorare Kumandra incontrando a ogni sosta nuovi alleati e vecchi nemici. A un livello più profondo, Raya persegue (e prosegue) lo sgretolamento della figura canonica della principessa Disney.
Lei che principessa lo è, in effetti, ha molta più considerazione invece del suo ruolo di guerriera. Si fa leader del gruppo di comprimari che lentamente le si forma attorno, avendo sempre più cura di porsi al centro dell’azione anziché delegarla. I soli elementi fuori dal suo controllo sono quelli sovrannaturali, ossia quelli che, come i draghi, obbediscono a leggi non umane e quindi le sono superiori. Interessanti, tuttavia, sono proprio i momenti in cui il controllo le sfugge, mostrandola come un’eroina imperfetta, o persino accecata dalla vendetta e dalla rabbia, caratteristica solitamente relegata all’antagonista. È solo in questo modo, infatti, che diventa un personaggio completo, non solo luce e non solo ingenuità, ma anche ombre e complessità.
IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA
A ciascuno di questi aspetti positivi, tuttavia, corrisponde un risvolto negativo che compromette la piena riuscita del film nel suo complesso.
Lo sforzo gigantesco della regia e dell’animazione, prima di tutto, risente di una sceneggiatura estremamente semplificata, appiattita su un pubblico giovane o propriamente infantile, ma estremamente ambiziosa nel complesso. Di conseguenza diventa difficile anche classificare i personaggi e le loro motivazioni: non sono i classici riferimenti narrativi dei bambini ma nemmeno figure in cui un pubblico adulto riesce pienamente a identificarsi. Così, una storia che avrebbe potuto essere memorabile alla fine colpisce più per la grafica CGI che per il suo sviluppo narrativo.
In secondo luogo, la grande unione rappresentata da Kumandra, pur nelle sue nobilissime intenzioni, mescola indistintamente numerose culture in un calderone in cui è difficile distinguerle. Ma qui entra in gioco anche un certo smarrimento del pubblico occidentale (me compresa) di fronte a un territorio così vasto e ricco di diverse identità culturali come il sud-est asiatico. Per la precisione, oltre al più riconoscibile Vietnam, i creatori hanno fatto riferimento alle tradizioni di Brunei, Singapore, Thailandia, Timor Est, Cambogia, Myanmar, Malesia, Indonesia e Filippine.
L’ultima perplessità riguarda infine il sospetto queerbaiting relativo a Raya e alla sua antagonista Namaari. Si parla da tempo di una principessa Disney queer, più per richiesta da parte del pubblico che per effettivo interesse della Disney. La politica da sempre conservatrice degli Studios però non sembra ancora andare in questa direzione, nonostante la New Era di cui dicevamo.
La realtà è che, proprio perché l’eroina del film è un’eroina inedita e più sfaccettata, anche la sua relazione con l’antagonista appare diversa e più articolata. Nel conflitto tra le due emerge anche l’ammirazione e, perché no, l’attrazione se così la si vuole leggere. Il problema risiede più che altro nelle vaghe intenzioni della Disney. Non smentendo né confermando, sembra infatti che stia in disparte a osservare le onde d’urto di un presunto cambiamento che di fatto non ha rivendicato.
Nel complesso queste motivazioni non intaccano la qualità globale di Raya e l’ultimo drago ma aiutano a capire che forse, semplicemente (a differenza dei contemporanei lavori Pixar), la Disney Animation produce ancora per un pubblico quasi monolitico e molto molto giovane. E non tutti possono ritrovarsi pienamente dentro la sua proiezione.
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