Rock Lit. Musica e letteratura: legami, intrecci, visioni – Liborio Conca, Jimenez Edizioni, 2018.

Ci sono sensazioni che fluttuano libere nell’aria, pure e vergini da qualsiasi soggettività che se ne impossessi. Sono l’espressione di fenomeni naturali capaci di vivere anche senza che qualcuno li colga. 

Spesso, queste sensazioni sono anche l’espressione di fenomeni artistici. Parole che debordano dalle pagine dei libri in cui sono scritte, canzoni che tracimano oltre le note che le compongono. Creazioni che escono dai limiti organici entro i quali sono state realizzate, che fluttuano nell’aria, indipendenti e indifferenti all’attesa di uno spettatore. Perché non ne hanno bisogno, vivrebbero benissimo senza.

È lo spettatore piuttosto ad aver bisogno di loro, senza neppure saperlo. Le coglie, le possiede, le consuma e le elabora. Le rende il meccanismo di accensione di un circuito straordinario nel quale ognuna di esse si mescola all’altra, ne diventa la causa e l’effetto, in un gioco di richiami e influenze, di sintomi inesauribili che ne generano altri, altre sensazioni, altre parole, altre canzoni. 

Qualcuno lo chiama sistema culturale. 

E una delle sue tracce più concrete ed evidenti è senza dubbio la strettissima connessione tra musica e letteratura. Esattamente la connesione di cui parla il libro di Liborio Conca dal titolo Rock Lit. Musica e letteratura: Legami, intrecci, visioni (Jimenez, Edizioni, 2018).

O, meglio, di cui ci parla. Perché lo fa nel modo schietto in cui ce ne parlerebbe un amico, di fronte a un boccale di birra. Magari seduti dentro un pub dove in sottofondo suona quella musica e in TV scorrono quelle immagini.

Il primo capitolo di Rock Lit dal titolo piuttosto emblematico (nella foto David Bowie e William Burroughs)

Nel chiasso e nell’oscurità del pub sono confuse, opache, ma la voce di Liborio le rende improvvisamente nitide, dandoci il senso della loro creazione, trasmettendoci il bisogno esistenziale di ogni artista che le ha realizzate. 

E a un certo punto il nostro amico abbassa la voce e si tende verso di noi, come stesse rivelandoci un segreto: ci racconta con un sussurro l’impellenza vitale che ha reso impossibile per gli artisti non creare quelle canzoni e quelle immagini. 

Ma, non pago, quando capisce di avere tutta la nostra attenzione, di averci immerso in un contesto storico e sociale ben preciso, ci bisbiglia con un filo di voce che quelle canzoni e quelle immagini sono il sintomo di qualcos’altro. 

Ci lascia sulle spine senza dirci di cosa, beve un sorso della sua birra e ci guarda negli occhi, magari apre una piccola parentesi (le note a pié di pagina) raccontandoci un aneddoto che svia dall’unica domanda che ormai abbiamo in testa: qual è la radice che unisce tutte queste creazioni?

All’ennesima parentesi che apre, quella domanda gliela poniamo concretamente. Ma lui ci sorride, dice che ce lo ha già anticipato fin dall’inizio: è la letteratura.

Così, all’improvviso, mentre il nostro amico si alza per liberarsi del boccale che ha appena tracannato, capiamo che non ci sono i Nirvana o una parte fondamentale di David Bowie  senza William Burroughs, che non ci sono i Radiohead senza George Orwell, né Patti Smith senza Rimbaud, o i REM senza Flannery O’Connor e PJ Harvey senza Steinbeck.

Immersi in questi pensieri, solleviamo lo sguardo e vediamo sullo schermo della TV un video dei Cure. Loro no, pensiamo. 

Ma proprio in quell’istante il nostro amico torna e con la faccia seria indica la TV e dice: 

Ti ho mai raccontato di quanto i Cure debbano a Franz Kafka?

Questo è Rock Lit: una splendida serata trascorsa in un pub con un amico che ha avuto un’illuminazione (o una “visione”) sull’arte, sulla musica e sulla letteratura e che ha sentito il bisogno di raccontarcela. 

Proprio come noi, usciti dal pub o finito il libro, sentiamo il bisogno di assecondare quella sua illuminazione, cercando altre parole e canzoni per scoprire altri possibili e impossibili intrecci.

E, magari, perché no, lasciarci contagiare da quei sintomi e crearne noi stessi di nuovi. 

Il capitolo dedicato agli intrecci tra The Smiths, Kate Bush, Cure, Joy Division, Radiohead e Emily Brönte, Camus, Kafka, Dostoevskij, Orwell.

Per averci dato la possibilità di leggere il suo libro, ringraziamo Liborio Conca, giornalista e caporedattore del blog minima&moralia. Ricordiamo inoltre che Rock Lit è disponibile in libreria e nei principali digital store.

Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.

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