Roger Waters This is Not a Drill
© FRAMED Magazine; Ph. Valeria Verbaro

C’è elettricità nell’aria e non è solo perché a Bologna, dopo giorni di sole, sta per tornare il temporale. È il 29 aprile, ultima delle tre date emiliane del “primo tour di addio” di Roger Waters, come lui ha voluto chiamarlo.

This is not a drill – His First Farewell Tour ha toccato l’Italia solo nelle città di Milano e Bologna: 150 minuti di spettacolo in due atti che non è – e non può essere – soltanto musica, conoscendo Waters.

Uno show che si fa politico e si fa intimo, trovando un suo equilibrio tanto nella scaletta quanto nella composizione dello spettacolo, dalla forma del palco alle grafiche sui maxischermi, che sono parte del racconto tanto quanto la musica.

Si inizia con Comfortably Numb, un classico dei Pink Floyd, dal terzo album in studio The Wall (1980). Una scelta azzardata e non forse non casuale, perché è il brano con cui David Gilmour ha scelto per molto tempo di chiudere i suoi live, con un lungo assolo di chitarra. Waters lo ribalta come apertura ed elimina l’assolo, quasi dicendo qui non c’è spazio per Gilmour.

Non va per il sottile e il primo fuck off to the bar arriva al pubblico già nel messaggio registrato pre-concerto: se sei lì è perché vuoi stare a sentire cosa ha da dire lui e nessun altro. Lui che dei Pink Floyd è stato fondatore. Non importa che qualche boomer (ubriaco già prima che si spegnessero le luci) gli urli di non fare sermoni e continuare a cantare, ogni componente dello show ha un messaggio da leggere o ascoltare.

Così mentre Waters canta e suona, sui maxi schermi a forma di enorme croce  – come il palco in mezzo all’Unipol Arena strapiena – scorrono le prime immagini che aggiungono senso ai brani. Immagini di un’umanità isolata e risucchiata, numb appunto, intorpidita. Scorrono animazioni di palazzi distrutti e di non-luoghi irriconoscibili, che tuttavia portano subito alla memoria anche la guerra in corso in Ucraina (a cui Waters, pacifista convinto, si oppone in modo radicale).

Fuck & Resist

Accanto ad Another Brick in the Wall (meraviglioso brano dall’album The Wall) Waters posiziona The Powers that Be, dal secondo album solista Radio K.A.O.S. (1987) che era ed è un inno all’antimilitarismo. Gran parte dello spettacolo si può riassumere con due verbi che Roger Waters usa spesso durante la serata: fuck e resist.

Brano dopo brano, attraverso la narrazione costruita sugli schermi, manda al diavolo, senza mezzi termini, tutti i poteri costituiti, i presidenti degli Stati Uniti, il capitalismo, il fascismo, il patriarcato, gli eserciti.

Non ha remore nel mostrare fra una canzone e l’altra un terribile video dell’esercito statunitense che uccide civili, uno dei video resi pubblici da Julian Assange. E non teme nemmeno di schierarsi per la libertà di Assange.

Direte, forse, che sembra di ascoltare un vecchio zio complottista e di sinistra che vuole lasciare moniti e istruzioni. A tratti è impossibile negarlo, però è anche il nucleo di gran parte della sua carriera come autore e artista.

Mostra così sugli schermi i nomi di Ahmaud Arbery, Breonna Taylor, Philando Castile e George Floyd, nomi che il movimento Black Lives Matter ricorda come vittime nere della violenza razzista della polizia. Mostra il nome di Mahsa Amini e ricorda più volte anche le vittime palestinesi, sottolineando che “dove c’è occupazione non esistono diritti umani”.

Per le sue posizioni contro Israele è stato anche accusato di antisemitismo, fino alla cancellazione del concerto a Francoforte, da poco riconfermato per il 28 maggio.

Chi pensava quindi di ascoltare solo qualche canzone dei Pink Floyd, a questo punto dovrebbe prendere sul serio l’invito di Waters e indietreggiare verso il bar. Nessuno lo fa, ovviamente, e i brani dei Pink Floyd arrivano lo stesso, a bilanciare con le emozioni i momenti di riflessione politica.

Running over the same old ground

Non bastano certo Comfortably Numb e Another Brick in the Wall, anche se intonarli tutti insieme è stata già una magia. Non basta nemmeno sentire il magnifico basso di Roger Waters in Money, unico brano in cui sceglie di non cantare per dedicarsi soltanto alle sue corde.

Il momento più emozionante in assoluto, quello che tutti – compresa chi scrive – aspettavano è nella successione di Wish You Were Here e Shine On You Crazy Diamond.

Waters sceglie di raccontare dall’inizio la storia e l’amicizia con Syd Barrett, da quando ancora adolescenti i due capirono di voler metter su una band. Per un po’ riuscimmo a realizzare questo sogno. Il resto è storia, si legge sugli schermi, mentre i riconoscibilissimi accordi del brano dedicato a Barrett continuano a scorrere.

So, so you think You can tell...

I brividi qui non si possono spiegare. Non si riescono nemmeno a cantare. È l’emozione più grande di tutte, a cui fa subito seguito un’altra forte connessione emotiva, con Waters e con il resto del pubblico: quell’urlo, che sembra un pianto, alla fine di Shine On, altro brano storico pensato per Syd Barrett.

Una personale nota a margine, per concludere

Ci sono folle di sconosciuti in cui ci si sente a casa, in cui ci si riconosce. Questa folla era in realtà una comunità: tanti uomini, tanti amici, padri con i figli piccoli o adolescenti, trentenni e sessantenni. Boomers, Millennials e Gen Z, c’erano tutti e da tutta Italia. C’era un uomo, in particolare, che ha ballato da solo per due ore e mezza, alzando le mani come in preghiera di fronte alla musica, indietreggiando al suono di ogni assolo, come investito dalla potenza delle note. Mi avrà pestato i piedi un centinaio di volte, prendendosi tutto lo spazio che è riuscito a ritagliarsi nel parterre affollato, eppure ogni volta ho pensato che è solo così che ci si dovrebbe godere la musica che si porta nel cuore.

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