A quasi dieci anni dal suo esordio registico, The Heat Machine, torna dietro la macchina da presa il giovane newyorkese Zachary Wigon. Tra ammiccamenti hitchcockiani e sperimentazioni sceniche, Sanctuary rinnova il tema delle relazioni erotico-sentimentali, già affrontato nella prima fatica dell’autore, deviscerandone stavolta le intrinseche dinamiche di potere.
La trama, mistress ed empowerment
Protagonista è una coppia anomala: lui è un rampante ereditario di una catena alberghiera (impersonato da Christopher Abbott, già co-protagonista dell’horror Possessor, opera seconda del figlio d’arte Brandon Cronenberg); lei è un’avvenente sexworker assoldata come dominatrice sessuale (interpretata da Margaret Qualley, volto ormai noto ai più per la segnante performance in C’era una volta a… Hollywood di Quentin Tarantino).
L’incipit sembra a un primo sguardo presentarci una routine da tempo collaudata: in cambio dell’abituale compenso, la donna schiavizza l’uomo sottoponendolo ad estenuanti provocazioni psicologiche (montature che si attengono rigorosamente ad un copione); dal canto suo, l’uomo si lascia deliberatamente soggiogare e umiliare, fino a goderne appagato.
Tutto sembra rispondere a una mera abitudine, per l’appunto. Se non fosse che, una volta usciti entrambi dai rispettivi ruoli di dominatrice e dominato, scopriamo che quello è il loro ultimo appuntamento: Hal ben presto dovrà incassare l’ingombrante lascito del padre magnate, appena deceduto, e «l’interiorità dovrà coincidere con l’esteriorità», come ribadisce a più riprese citando pedissequo il motto dell’austero genitore; davanti all’organico agguerrito dell’azienda di cui sarà presto CEO, teme che vedersi come mite “schiavo” nell’intimo possa ripercuotersi anche sulla sfera professionale.
Il privato potrebbe sabotare il pubblico: le sue inclinazioni potrebbero intaccare l’immagine di leader autorevole e primeggiante, necessaria per l’imminente incarico. Inutile a dirlo, l’imprevisto scuote Rebecca che, dopo un’iniziale ritrosia, ricatta l’uomo e ingaggia un nuovo gioco delle parti, questa volta “informale”, in un perpetuo alternarsi di maschere.
Omaggi ed emulazioni, un postmoderno sincero?
Il film ambisce ad un registro thriller, scandito da tensione e atmosfere sospese. Come da premessa, lo stesso nome della protagonista (Rebecca) rivendica spudoratamente una discendenza hitchcockiana. Molte transizioni tra una sequenza e l’altra sono cadenzate da eclettici giochi di luci e colori (spesso esornativi, pretestuosi e anche risparmiabili), evidenti allusioni ad alcuni dei passaggi più canonici del Maestro del Brivido; tra tutte ovviamente la prodigiosa (e spettrale) figurazione di Kim Novak, nei panni della moglie “resuscitata” di James Stewart ne La donna che visse due volte.
Fedele alla lezione impartita da quel capolavoro, anche Wigon saggia il tema del doppio nel tentativo però ribaltarne gli esiti tradizionali. Contrariamente ai passati adattamenti, infatti, qui la natura duale della protagonista diviene a sorpresa un viatico per affermare un’emancipazione dallo sguardo oggettivizzante dell’uomo, fino a suggerire una ridiscussione delle identità; nell’ambivalenza delle classiche dark lady si tendeva, spesso, a ribadire l’estro mellifluo, fumoso e ingannevole del femminile, di cui l’eroe maschile ne subiva l’influenza fino a sobillarne la follia e il disfacimento morale (si potrebbe tessere un filo rosso che parte dall’irruenta flapper protagonista di Aurora di Murnau, passando per la straordinaria Joan Bennett ne La donna nel ritratto di Fritz Lang, per arrivare volendo allo straziante: «Tu non mi avrai mai», sibilato da Patricia Arquette in Strade perdute di David Lynch).
L’intuizione alla base di Sanctuary vuole riconvertire questa tendenza. L’estro volitivo e desiderante della protagonista si rivela infatti una via per l’autocoscienza e l’auto-accettazione; un percorso che, nella sua eccezionalità diegetica, saprà innescare un interessante cortocircuito anche nell’altro coinvolto. L’uomo saprà infatti decostruirsi a partire dalla soggettività maturata dal femminile.
Viene da pensare a uno spunto originale nel suo genere. In effetti lo è. C’è però da chiedersi se possa giustificare delle scelte estetiche talvolta barocche e spurie, figlie per metà dei modelli cinematografici dichiarati, e non di un calco autentico.
Insomma, questa strenua rincorsa al canone, mista ad atmosfere da dramma psico-sessuale simil 50 sfumature di grigio, potrebbe preludere un’operazione postmoderna riuscita. Ma è davvero così? I pregi del film sono forse più ascrivibili al canovaccio, che alla messa in scena.
Chi ha paura di Virginia Woof? Di Mike Nichols e Il servo di Joseph Losey: oltre al debito hitchcockiano, sono questi gli altri due riferimenti esplicitati dal regista, su cui Sanctuary trarrebbe le proprie radici stilistiche.
Il cambio di acconciatura di Rebecca, compiuto tra l’incipit e il resto del lungometraggio, in cui la protagonista si spoglia del voluminoso toupet biondo, utilizzato nell’iniziale gioco sadomasochistico pattuito, sottoscrive l’anzidetto motivo del doppelgänger.
Questa caratteristica potrebbe farci azzardare un altro possibile omaggio, seppur indiretto; quello al cinema noir di Brian De Palma (si pensi solo a Vestito per uccidere, in cui l’outfit dell’omicida designava un’identità frammentaria e, in quel caso più che mai, repressa). Lo stesso piano regia dell’opera di Wigon sembra di fatto riecheggiare quel codice: virtuosi movimenti di macchina, inquadrature asimmetriche, punti luce ricercati e via seguitando.
In sintesi
Parlare oggi di De Palma significa far fronte all’esperienza importata dal postmoderno cinematografico: combinare linguaggi del passato e rielaborarli in favore di una nuova poetica. Di quest’assunto Sanctury sembra però non averne fatto tesoro. Nonostante i continui (e smaccati) rimandi ai modelli filmici su citati, fatica a definire una propria personalità. In totale dissonanza coi suoi protagonisti, la regia presenta a tratti un’identità anonima, più interessata a un citazionismo lezioso, che a una sincera esplorazione del genere. Più un esercizio di stile.
Non è assolto da criticità neanche il finale, dove trapela il vero risvolto ideologico dell’opera. Rappresentare il leaderismo femminile è tutt’oggi una pratica complessa, oggetto di discussioni per lo più contrastanti (del decennio trascorso l’esempio più conciliante e paradigmatico è forse quello dell’Imperatrice Furiosa del magnifico Mad Max:Fury Road – vero manifesto identitario di un protagonismo “di rottura” in senso politico).
Rimane tuttavia intrigante la singolarità dell’intreccio e la riflessione sul ruolo della sessualità (fattore detonante, che sigla il conflitto e la conseguente crescita e autoaffermazione dei personaggi). Non meno ragguardevole è la rilettura archetipale della genitorialità, in particolare del paterno, che ottenebra la coscienza di Hal: il ribaltamento simbolico inscenato in una sequenza, di cui Rebecca sarà artefice, saprà donare a quel fatidico adagio «L’interiorità deve coincidere con l’esteriorità» un senso del tutto inedito.
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