Valeria Rinaldi in concerto
Valeria Rinaldi in concerto

Al consueto appuntamento di Jazz in the Theatre, che da otto anni viene ospitato dal Teatro Ivelise di Roma, Valeria Rinaldi presenta in anteprima il suo nuovo album My Time: “Il mio tempo“, spiega prima di eseguire il brano che da il titolo all’album, “un tempo di cui torno a impossessarsi, forse per la prima volta, per farlo mio, come il momento per affrontare se stessi e pagare i propri debiti col passato, per entrare definitivamente nella vita“.

Quella di Valeria è una personalità che emerge lentamente dalla sua esibizione, ma in modo inesorabile, spiegando la nascita di alcuni brani e le parole di alcuni testi, tra voglia di rinascere dalla pandemia e quella di rompere col passato, costruendo bei pezzi in italiano e bellissimi in inglese. Come quello che da il titolo al disco e al concerto, My Time, dal quale affiora tutto: dal modo personale di cantare alla capacità di integrare lo scat in una lirica swing, dal virtuosismo del sassofono, sul quale si sospende la sua voce, alle salite vorticose del pianoforte, sulle quali si abbandona, mentre ridiscendono lievi dentro le orecchie soddisfatte degli spettatori.

Coraggio energia e libertà

E se l’album riesce a trasmettere le stesse vibrazioni emanate su quel palco, siamo di fronte a una splendida prova di coraggio ed energia. Il coraggio di adattare la lingua italiana a una musica jazz che, spesso, non usa nemmeno parole, ma fonemi, com’è lo scat, di cui fu madre Ella Fitzgerald, punto di riferimento di Valeria Rinaldi alla quale dedica la chiusura del concerto con la cover di Goodnight, My love.    

E poi l’energia, quella di una voce brillante che, forte, tira fuori la propria vena personale, quel timbro originale che stacca il professionista dall’amatore. Coraggio ed energia trovano una spinta decisiva nella voglia di libertà che traspare da tutto ciò che si vede incastrato in quel piccolo palco: dalla voce al corpo, dalle parole ai silenzi, dalla musica a tutti gli strumenti che la creano. Perché su quel palco di pochi metri quadri, Valeria è sostenuta da un sestetto: la batteria di Gianmarco De Nisi, il contrabbasso di Flavio Bertipaglia, la tromba di Giuseppe Panico e il trombone di Walter Fantozzi, guidati da altri due musicisti e compositori eccezionali, il pianista Pietro Caroleo e il sassofonista Stefano Di Grigoli.

Come un quadro

Un jazz sofisticato ma di facile ascolto, come un quadro nel quale si stagliano pennellate di blues e di scat su uno sfondo swing dove le forme sfruttano un pizzico di pop per essere riconosciute dai nostri occhi, o dalle nostre orecchie, e accogliere così l’ascoltatore nel suo spazio, o meglio, nel suo tempo.

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.

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