Vite vendute (Le salaire de la peur), diretto da Henri-Georges Clouzot
Vite vendute (Le salaire de la peur), diretto da Henri-Georges Clouzot

Il 22 aprile 1953 esce in sala Vite Vendute (Le Salaire de la peur) di Henri-Georges Clouzot (tratto dall’omonimo romanzo di Georges Arnaud): uno dei thriller più intensi e coinvolgenti della storia del cinema. In un minimalismo crescente, che porta quattro uomini ad affrontare la paura tangibile della morte, si consuma il dramma occidentale del sogno della patria perduta.

I quattro del viaggio all’inferno

A Las Piedras, paesino del Sudamerica degli anni ’50, il caldo e la miseria regnano incontrastati. La cittadina vive all’ombra della società americana SOC (Southern Oil Company), che sfrutta la povertà locale per un suo tornaconto. Moltissimi occidentali sono fuggiti dalle loro case e dalle loro vite passate per finire in questo cimitero sociale. Chi per fare fortuna, chi per fuggire da crimini chi per altri motivi.

Tra di essi spiccano Mario (Yves Montand) e Jo (Charles Vanel), francesi, l’italiano Luigi (Folco Lulli) e il tedesco Bimba (Peter Van Eyck). Il loro unico desiderio è trovare abbastanza soldi per tornare finalmente in patria.

Quando un pozzo petrolifero prende fuoco, la società propone di trasportare della nitroglicerina con due camion per far saltare in aria il pozzo. Hanno bisogno di quattro piloti volontari, a cui offrono duemila dollari a testa. Il lavoro è poco meno di un suicidio, visti i mezzi forniti e la condizione in cui versano le strade. I quattro però sono disposti a tutto pur di guadagnare la cifra necessaria a comprare un biglietto aereo per tornare in patria. E inizia il loro viaggio verso l’ignoto.

Non ci vuole molto per avere cent’anni. Qualche mese. Basta essere nel posto giusto, al momento giusto.

Bimba

Due atti, quattro storie, un destino

La prima parte del film è ambientata in un girone infernale travestito da buco cittadino, dove la fame e la miseria materiale e umana si mescolano al cinismo disperato e ai ricordi delle patrie perdute dei miserabili che vogliono fuggire.

Poi la città diventa il punto di partenza di un viaggio che porta i piloti in una dimensione di morte reale e tangibile, dove non esistono il caldo o il freddo e spariscono il passato e le miserie. Esiste solo la possibilità di morire e un attaccamento ossessivo al volante del camion per evitarla. Tutto per essere dei sopravvissuti.

È un viaggio che cambia i loro caratteri. La dicotomia tra Jo e Mario si inverte e si accentua mentre il viaggio prosegue. Il primo sprofonda sempre più nella paura e nel patetico, il secondo si tempra e fortifica fino a diventare cinico e indifferente alla vita umana. E questo lo segna in maniera tragica.

Il finale, scanzonato e crudo insieme, con il valzer di Strauss in sottofondo, resta uno dei più amari e tragici della storia del cinema.

La realtà sociale fuori dal benessere occidentale

La visione in lingua originale aumenta il realismo del film. Nella Babele sudamericana dove il francese fa da lingua comune, ma ognuno parla il suo tedesco, italiano, spagnolo o inglese, c’è un senso di smarrimento comune che ogni lingua racconta privatamente.

I meravigliosi paesaggi riarsi dell’America Latina più brulla che si possa immaginare tremolano come illusioni provocate dalla paura per la tensione che sale ad ogni scena. Ogni buca è un battito saltato, un secondo di paura che può tramutarsi in lutto o sollievo. Le scene del pozzo, ma del film in generale, ricordano la poetica fotografica di Salgado. Assistiamo a una miseria spaventosa da cui si può fuggire solo attraverso un inferno più diretto e reale. L’ombra della società petrolifera ammorba tutto. Ricorda una vessazione simile a quella delle bande criminali. Spreme la povera gente e restituisce poco o niente, interessata solo al suo profitto.

Quattro attori per l’Europa intera

Yves Montand regala qui uno dei suoi personaggi più umani, seppur viziato da un certo machismo. L’attore rende viva ogni sfumatura di Mario, da quelle più tragiche a quelle più passionali. Fu uno dei più grandi attori francesi del novecento, ricordato per film come Sanctuary (1961), Grand Prix (1966), Z (1969), Le Cercle Rouge (1970)

Charles Vanel, grandissimo attore francese attivo fin dai tempi del muto, si occupa di un personaggio che riesce a farsi odiare in ben due atteggiamenti opposti. Come gli altri, Vanel ha lavorato in tutta Europa, prendendo parte a film di Germi, Hitchcock e Rosi.

Folco Lulli, caratterista del cinema del secondo dopoguerra, ha preso parte a molti film italiani di maestri come Lattuada e Monicelli, ma ha avuto anche molti ingaggi nel cinema francese. Il suo Luigi è il più ottimista e gioviale dei quattro, ma è vessato dall’inferno del lavoro massacrante e poco retribuito che ne ha già minato irrimediabilmente la salute.

Peter van Eyck con il film di Clouzot si guadagnò gli onori della critica, ricevendo ingaggi da Europa e America. Fu attivo principalmente in film di guerra, come Il giorno più lungo (1962), o di spionaggio, come La spia che venne dal freddo (1965). Il suo Bimba sembra solo uno dei tanti mezzi criminali della città, mentre durante il viaggio si aprirà sul suo passato e si rivelerà un uomo dalle mille idee e dal grande coraggio.

Clouzot, maestro del thriller

La regia schiude la mente ad ogni inquadratura, ponendo degli accenti precisi e mirati per creare una tensione che si materializza nella parte più profonda dello spettatore. Da quando i protagonisti salgono sui camion, il minimalismo registico si trincera dietro pochi elementi: la strada, gli uomini, i pedali, gli ostacoli, che creano una claustrofobia mortifera. Clouzot ci inchioda con la sua cinepresa su quei mezzi così instabili al loro fianco, e anche noi siamo vittime della paura di morire al primo errore.

Henri-Georges Clouzot si è distinto per le sue pellicole thriller, in particolare Les Diaboliques (1955) e Les Espions (1957). il suo La Vérité (1960) fu candidato all’Oscar per il miglior film straniero.

Le Salaire de la peur rimane l’unico ad aver vinto sia l’Orso d’oro a Berlino che la Palma d’oro a Cannes. Nel 1977 William Friedkin ne realizzò un remake intitolato Sorcerer.

In breve

Vite Vendute è un thriller veramente mozzafiato, dove l’umano affiora tra la paura della morte e il bisogno di vincere la miseria. Una visione che vi porterà in abissi di tragedia e suspense realizzati con una cura eccellente. Di quelle che restano impresse per tutta la vita.

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Francesco Gianfelici
Classe 1999, e perennemente alla ricerca di storie. Mi muovo dalla musica al cinema, dal fumetto alla pittura, dalla letteratura al teatro. Nessun pregiudizio, nessun genere; le cose o piacciono o non piacciono, ma l’importante è farle. Da che sognavo di fare il regista sono finito invischiato in Lettere Moderne. Appartengo alla stirpe di quelli che scrivono sui taccuini, di quelli che si riempiono di idee in ogni momento e non vedono l’ora di scriverle, di quelli che sono ricettivi ad ogni nome che non conoscono e studiano, cercano, e non smettono di sognare.

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