Batman v Superman: Dawn of Justice (2016), Warner Bros.
Batman v Superman: Dawn of Justice (2016), Warner Bros.

In Batman v Superman: Dawn of Justice (2016) le contraddizioni e i contrasti (tematici, stilistici, creativo-produttivi), i pregi e i difetti del precedente film (Man of Steel) che il regista Zack Snyder dedica agli eroi della DC Comics, sono moltiplicate e potenziate, reagendo tra loro sino ad esplodere. Il risultato è uno dei blockbuster più divisivi degli ultimi vent’anni (almeno), un punto di non ritorno (nel bene e nel male) nella carriera del cineasta, e il primo scontro aperto tra la sua visione e le imposizioni della Warner Bros.

Imposizioni che portano all’uscita nelle sale di una versione tagliata di quasi mezz’ora rispetto alla cosiddetta Ultimate Edition, ovvero il montaggio originale voluto da Snyder, uscito più tardi in Blu-ray e di cui si terrà conto nella breve analisi a seguire. In ogni caso, mai come questa volta il filmmaker (con la sceneggiatura firmata da Chris Terrio e David S. Goyer) vacilla sotto il peso delle sue stesse ambizioni, il che rende Batman v Superman un film interessante da riscoprire anche (e forse soprattutto) nei suoi limiti.

Uomini, (semi)dei da uccidere e un dramma morale

Come, e persino più che in Man of Steel, Batman v Superman si arrischia a calare i due iconici e archetipici supereroi del titolo in un contesto che li reinventa parzialmente in chiave problematica e oscura, in contrasto ormai deliberato col Marvel Cinematic Universe allora in piena espansione (nello stesso anno esce Captain America: Civil War, che invero condivide più di uno spunto col film di Snyder).

A nutrire questa rivisitazione sono qui con ancora maggiore evidenza i fumetti degli anni ’80, quelli dove autori come Frank Miller e Alan Moore rileggevano a un grado inedito di complessità e disincanto il mito dell’eroe mascherato mettendone in crisi i presupposti e rovesciando sull’ingenuità dei protagonisti fardelli e dilemmi esistenziali, psicologici, politici e morali del nostro mondo.

Snyder ha mosso i primi passi da regista con entrambi i fumettisti citati, il Miller di 300 e il Moore di Watchmen. Quest’ultimo è un riferimento fortissimo di Batman v Superman, a livello visivo (il direttore della fotografia, Larry Fong, è lo stesso in entrambi i film) e nella stessa caratterizzazione tanto del vigilante incappucciato quanto dell’Uomo d’acciaio, che in effetti potrebbero essere interpretati qui sulla falsariga di due degli antieroi mooriani, Rorschach e il Dr. Manhattan.

Il Batman del film, interpretato da un più che convincente Ben Affleck, scarta volutamente dal canone dell’eroe già rivisto in chiave realistica (ma meno in rotta con alcuni cardini del giustiziere di Gotham City) da Christopher Nolan nella sua trilogia. E malgrado Snyder, in una memorabile sequenza d’apertura (tutta giocata sui dualismi di luce e ombra, realtà e sogno, ascesa e caduta), mostri di conoscere e saper condensare in pochi minuti la mitologia del personaggio, ce ne presenta poco dopo un’incarnazione molto diversa da quella a cui siamo abituati.

Più ancora di Nolan, viene infatti in mente la graphic novel Il ritorno del cavaliere oscuro di Frank Miller, per molti elementi del look (a cominciare dall’armatura indossata nella lotta con Superman) e per l’immagine di un Uomo pipistrello reso più stanco e cinico dall’età matura. Ma, per certi versi ancora di più, questo Batman (almeno nella prima parte, come vedremo) ricorda il paranoico Rorschach di Watchmen. Non solo per la brutalità con cui infierisce su alcuni fuorilegge (addirittura marchiando i responsabili dei crimini più efferati), ma anche per come opti deliberatamente per l’omicidio nella contesa iniziale col nemico-amico dal mantello rosso, visto come una minaccia troppo grande al genere umano tutto per lasciarlo in vita.

Più ancora della dialettica, in fondo scontata e forse troppo sottolineata nel film, dell’uomo contro il (semi)dio, è interessante qui il capolinea morale cui sembra giunto l’(anti)eroe di Snyder/Affleck. Come il Rorschach di Watchmen infatti abbandona definitivamente (a seguito di un episodio tragico che ne riattiva il trauma di ex bambino vittima di abusi) il codice da supereroe “classico” che gli imponeva non assassinare i criminali, così il contatto prolungato con l’abisso nietzscheano della criminalità e l’impotenza (dopo quella di fronte all’omicidio dei genitori) dinanzi alla strage di Metropolis causata dallo scontro (in Man of Steel) tra Superman e Zod, fanno perdere a Bruce Wayne/Batman ogni vera fiducia nei suoi stessi riferimenti etici.

Che sopravvivono in modo radicalizzato quanto deformato, come dei contorni arbitrari e (quindi) senza compromessi dati a un mondo che si è svelato compiutamente prigione nichilista della coscienza: «Il mondo ha senso solo se lo costringi ad averlo», afferma Batman rivolto ad Alfred/Jeremy Irons, qualcosa di simile a ciò che Rorschach (almeno nel fumetto) sosteneva di fronte al suo psicologo Malcolm Long.

Dall’altra parte, il Superman (Henry Cavill) di questo film presenta più di un’analogia col semidivino e sempre più isolato Dr. Manhattan di Watchmen. L’eroe rossoblu è diviso, quanto e più che nel precedente capitolo della saga, tra proteggere un’umanità cui non appartiene del tutto ed estraniarsene. O addirittura dominarla come un nuovo despota, come suggerisce la sequenza dell’incubo distopico di Batman (il controverso “Knightmare”, forse troppo lungo ma di indubbia suggestione).

A tenere legato l’Uomo d’acciaio ai fragili abitanti della Terra è, come per il Dr. Manhattan, un legame affettivo, anzi due in questo caso, quello con la compagna Lois Lane/Amy Adams e quello con la madre adottiva Martha Kent/Diane Lane. Ma proprio questo vincolo, per la sua importanza, se messo in pericolo potrebbe far perdere all’ambiguo messia il controllo sul suo immenso potere.

E proprio quest’ultimo concetto ci porta ai nuclei tematici più interessanti del film. A cominciare dagli interrogativi sul controverso ruolo politico giocato da Superman nella società: è l’eroe di un singolo stato o del mondo intero (stavolta vediamo il kryptoniano agire in contesti come il Messico e un indefinito Paese in guerra tra l’Africa e il Medio Oriente)? E, in quest’ultimo caso, quanto è giusto che intervenga senza conoscere a fondo il contesto in cui agisce? E ancora, questo eroe-semidio deve rispondere a una legge già esistente (ma quale?) o è inevitabile che essa si riscriva in funzione del nuovo arrivato?

Su queste domande s’innesta l’altro grande nodo posto da Batman v Superman, veicolato esplicitamente dall’antagonista Lex Luthor (Jesse Eisenberg): l’impossibilità per il potere (per qualsiasi potere) di essere realmente e puramente “buono”. Figlio di un padre ricco e violento emigrato dalla Germania Est (ovvero da un altro potere scaduto nell’opposto dei suoi propositi benefici, quello dell’autoritarismo sovietico), questo Luthor vuole dichiaratamente smascherare la contraddizione di Superman: «Se Dio è buono, non può essere onnipotente, e se Dio è onnipotente non può essere solo bontà». Costringendolo a farsi (di nuovo) assassino o svelandone l’impotenza davanti all’umano che si eleva fino a sfidare la divinità: Batman, appunto, ma anche lo stesso Luthor, in questo ritrovandosi alleati. E speculari, nell’essere a propria volta uomini di potere (capitalisti e brillanti scienziati) portati anche per questo ad agire in modo moralmente discutibile o addirittura condannabile, riproducendo e amplificando le stesse ombre dell’uomo-dio che combattono.

Il film, come vedremo, non arriva ad esplorare a fondo questioni così dense e complesse, nondimeno esse informano la prima e più interessante metà della vicenda, trovando forse la sintesi nella sottovalutata sequenza del dialogo “immaginario” tra Superman/Clark e il defunto padre adottivo Jonathan/Kevin Costner. Il quale sembra ribadire l’impossibilità, nel mondo contemporaneo, di credere all’eroismo “puro” dei fumetti classici (non è più il 1938, ribadisce il Perry White di Laurence Fishburne al protagonista), perché ormai lo stesso immaginario pop ha introiettato la consapevolezza che qualunque azione porterà con sé conseguenze e danni collaterali più o meno imprevisti. E forse l’unico modo di “fare la cosa giusta”, come pare suggerirci il finale, è portare l’opzione altruistica alle estreme conseguenze del (cristologico) sacrificio individuale.

Tre film in uno e il regista – Icaro

Il problema maggiore di Batman V Superman è che al di sotto della storia descritta sopra ne scorre un’altra, che prende il sopravvento nell’ultima parte (corrispondente più o meno all’ultima ora delle tre, riferendoci alla Ultimate Edition), ossia a partire dal momento chiave del duello a lungo atteso e ritardato fra i protagonisti. La seconda storia, il vero e proprio secondo film di cui parliamo, è quello della fondazione (o meglio del preludio alla fondazione) della Justice League, il gruppo degli eroi DC cui sarà dedicato il film successivo, con i camei, tra gli altri, del Flash di Ezra Miller e dell’Aquaman di Jason Momoa, e un ruolo già rilevante giocato dalla Wonder Woman di Gal Gadot, qui alla prima apparizione.

Al di là delle pressioni di Casa Warner per costruire, sin troppo frettolosamente, un universo cinematografico corale da contrapporre a quello Marvel, si dimostra in questa svolta del lungometraggio la maggiore vicinanza di Snyder alla poetica di Frank Miller (piuttosto che a quella di Alan Moore), in cui si decostruisce il mito del supereroe non per dismetterlo una volta per tutte (come accade in Watchmen e in un celebre racconto su Superman, Che cosa è successo all’uomo del domani?) ma per rilanciarlo su diversi, e meno idealistici, presupposti.

Nel caso del lavoro di Snyder, però (e a prescindere dall’edizione), il film sulle origini del gruppo di eroi non si riesce a saldare a quello sulla loro messa in crisi. E il tentativo di tenerli insieme avviene al prezzo di forzature (su tutte, la famigerata, criticatissima scena di “Martha”, che in pochi minuti, e senza una spiegazione logica del perché Superman dovrebbe pronunciare proprio quelle parole, trasforma due nemici mortali in amici), del mancato sviluppo, se non dell’appiattimento e dell’abbandono, degli spunti più validi messi in campo nell’ora e mezza iniziale, e della spiacevole sensazione di avere messo davvero troppa carne al fuoco.

Illustrazione di Leonardo D’Angeli (china, acquerelli e gauche) con Tiziano De Siati (colori digitali)

Il risultato, nel suo complesso, è troppo poco, e troppo lontano dal canone dei personaggi a fumetti, per funzionare come premessa soddisfacente alla costruzione della Justice League “classica”, ma anche troppo semplicistico e ricondotto infine alle convenzioni dei cinecomics per rappresentarne una compiuta rilettura dark e autocritica.

Anche visivamente, l’ultimo atto del film appare sottotono rispetto a quanto visto prima: Doomsday (ispirato alla vera creatura che nel fumetto porterà l’eroe di Krypton alla, provvisoria, morte) è poco più di un generico troll da blockbuster. E l’eclissarsi dei due veri avversari di Superman, Batman (fattosi alleato) e Luthor (consegnato alla giustizia umana), smorza la tensione epica del momento, malgrado il nodo cristologico portato alle estreme conseguenze e il consueto gusto di Snyder per i riferimenti intertestuali, che qui rimandano a un cult del cineasta, Excalibur di John Boorman.

La Warner, come si ricordava in premessa, peggiora le cose, consegnando alle sale un montaggio dove i tagli vanno soprattutto a scapito della prima (e più interessante) parte del film, togliendole chiarezza e coerenza per fortuna restituite, almeno in parte, dall’edizione in home-video approvata dal regista (con cui alcuni, dopo aver visto la versione estesa, arrivarono addirittura a scusarsi pubblicamente per le passate critiche).

Ma anche questa edizione “integrale” (per cui si potrebbe ben parlare di Batman V Superman come di almeno tre film in uno) non cancella le criticità di cui sopra nel contrasto fra prima e seconda parte e nella coesistenza di troppi elementi e chiavi di lettura degli stessi personaggi. E tutto questo fa del secondo film DC di Snyder un prodotto coraggioso (anche più di Man of Steel) ma riuscito a metà, e tuttavia affascinante anche per questo. La battuta «Sei volato troppo vicino al sole» rivolta da Lex Luthor al cadavere di Zod, con riferimento al mito di Icaro, si adatta qui perfettamente al regista.

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Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.

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