Man of Steel, Warner Bros.
Man of Steel, Warner Bros.

Man of Steel (L’Uomo d’Acciaio) è molte cose. È un adattamento cinematografico del personaggio a fumetti creato 75 anni addietro da Jerry Siegel e Joe Shuster, e 35 dopo la prima, iconica trasposizione sul grande schermo con Christopher Reeve. È l’atto iniziale di una narrazione incompiuta, quella del pantheon supereroistico DC Comics ad opera del regista Zack Snyder (e che prenderà non a caso il nome di “snyderverse”), travagliata, sfortunata, (troppo?) ambiziosa e ormai definitivamente archiviata dopo (e malgrado) il ragguardevole colpo di coda della versione alternativa ed estesa di Justice League.

Un progetto dove s’incontreranno e scontreranno almeno due visioni opposte, quella del filmmaker e quella della major dietro di lui, che poche altre volte nella storia recente del cinema mainstream sono arrivate a collidere in modo così eclatante ed emblematico.

Perché il lungometraggio del 2013 è, in effetti, un momento chiave nella poetica di un autore che, con i suoi pregi e i difetti, ha sempre e comunque visto nei cinecomics più di una semplice macchina da assembleare freddamente per massimizzare i profitti di qualche multinazionale dell’intrattenimento. Tutto questo fa de L’uomo d’acciaio un prodotto pieno di limiti e contraddizioni, ma più solido e interessante di molti altri (precedenti e soprattutto successivi) del suo stesso genere.

Nascita di un messia immigrato (e dark)

Non si può comprendere la natura e il senso de L’uomo d’acciaio senza tenere conto de Il cavaliere oscuro. Sì, proprio quello di Christopher Nolan, co-produttore del film di Snyder e autore del soggetto assieme a David S. Goyer (che aveva collaborato alla trilogia del cineasta inglese su Batman). Malgrado l’uno e l’altro non facciano parte dello stesso universo narrativo, il Superman che (ri)nasce nel 2013 è figlio dell’Uomo Pipistrello rivisitato in Batman Begins (di cui si riprende la struttura avanti e a ritroso nel tempo), ma soprattutto nel sequel del 2008 con Heath Ledger e nel capitolo conclusivo del 2012.

Lo è nella volontà (ricambiata, nel caso del giustiziere di Gotham, dal grande successo di pubblico e dai consensi della critica) di leggere anche l’eroe dal mantello rosso in chiave problematica, realistica (per quanto possibile date le premesse del genere) e persino oscura. In contrasto con la mitologia del personaggio originale, personificazione di un bene luminoso, idealizzato e persino oltreumano, in linea con le sue origini extraterrestri. Ma, a ben vedere, sino a un certo punto.

Sulla carta, infatti, la storia di un essere nato dall’estinzione di massa del suo popolo, profugo di un mondo in fiamme, mimetizzabile tra coloro che lo hanno “accolto” solo al prezzo di occultare parte della sua natura, è persino più cupa (e, accettandone i presupposti sci-fi, verosimile) rispetto a quella di un miliardario orfano capace di fronteggiare (quasi) da solo i criminali di un’intera città (e che, curiosamente, non hanno mai pensato di colpirlo nell’unico punto del volto che la maschera lascia scoperta).

Il Superman di Snyder (e Nolan, e Goyer), peraltro già vicino al fumetto nella fisionomia dell’attore Henry Cavill, è esattamente questo: un migrante (non per scelta) che deve venire a patti con la sua identità composita, mentre si domanda (e ci si domanda) se la sua presenza, una volta uscito allo scoperto, potrà mai essere accettata e ritenuta accettabile. Anche la “S” del suo costume diventa il marchio di un patrimonio di conoscenze altro (è il simbolo del suo casato di provenienza), in un film dove Superman, scartando dal retroterra fumettistico, non è mai chiamato (se non di sfuggita) così, nemmeno nel titolo.

L’insistenza sul ruolo giocato dalle due figure paterne, quella del pianeta natio Krypton (il Jor-El di Russell Crowe) e quello adottivo del Kansas terrestre (il Jonathan di Kevin Costner), opposti e complementari nella loro presenza-assenza (un’assenza per perdita, in entrambi i casi), stanno a significare la stessa cosa. Ovvero, il peso di una duplice appartenenza che è un duplice lutto, ambedue  impossibili da integrare nel figlio senza lasciare qualcosa dietro di sé.

Ma la doppia paternità ci rimanda all’altra, fondamentale componente dell’Uomo d’acciaio snyderiano: quella (semi)divina, tutt’altro che distante dall’eredità fumettistica. E che però, qui, mantenendo e superando spunti già presenti (anche) nella lettura cinematografica di Richard Donner del 1978, si fa scopertamente di natura cristologica. Semmai, la differenza con la precedente saga (di cui il Superman Returns di Bryan Singer del 2006 può ben essere considerato un seguito e insieme una riattivazione nostalgica) sta nell’angoscia apocalittica che tale condizione comporta.

Questo Superman infatti (e il prosieguo della lettura snyderiana, che prevedeva prima tre e poi ben cinque capitoli, ce lo confermerà) non è solo costantemente minacciato dallo spettro della crocifissione (a seguire l’eventuale esaltazione), ma anche dall’incubo neanche troppo velato che Cristo possa farsi Satana.

Significativo, in questo senso, che la contrapposizione non sia già con la vera nemesi elettiva del personaggio (il tycoon umano Lex Luthor), ma con un altro super-kryptoniano, il Generale Zod (Michael Shannon). Rappresentante, in quanto militare golpista ed essere geneticamente programmato, del “mostro” di una legge sfuggita ai suoi stessi sacerdoti, e insieme specchio deformante dello stesso Kal-El. Che per fermarlo (dopo una battaglia dove il costo in termini di devastazione sovrasta in modo anomalo la catarsi di una comune “origine dell’eroe”), in un’altra trasgressione più apparente che reale dal canone del personaggio, deve farsi, da figlio redentore, padre punitivo, distruttore, sempre ambiguamente legato al suo contraltare demoniaco.

Un cinecomic irrisolto

Il vero problema di Man of Steel è che questa lettura del supereroe, in sé coerente, profonda e in grado di far scattare il cinecomic oltre le sue convenzioni almeno quanto quella del Batman nolaniano, sembra in conflitto già d’ora (e lo farà sempre di più coi successivi film) con due ordini di problemi.

Da un lato, infatti, abbiamo la spinta opposta (su cui forse già incidevano le pressioni di Casa Warner) a realizzare, comunque, un cinecomic almeno un po’ accomodante, in grado di accontentare tutti o la maggior parte. È il peccato originale di quello che si configurerà come il progetto (calato in modo sempre più invasivo sul disegno del regista) di edificare un universo espanso capace di inseguire e raggiungere quello della Marvel. E così la problematizzazione del mito e la veste esteticamente più dark non riescono, sin d’ora, a emanciparsi totalmente dai cliché di quello che, con gli Avengers, si va sempre più stabilizzando come un genere, anzi una formula.

Ecco allora che, ad esempio, i reiterati ritorni del padre Jor-El in versione olografica, facendone persino il mezzo per posticci tocchi umoristici, possono essere motivati da esigenze di alleggerimento dell’atmosfera e dalla valorizzazione di un attore del calibro (e del cachet) di Crowe, ma smorzano fin quasi a vanificare la forza di un momento come quello del primo volo di Kal-El futuro Superman mentre la voce over del genitore “divino” scorre come testamento-viatico morale.

Dall’altra parte, il film di Snyder sembra risentire a tratti del problema opposto: come ne Il cavaliere oscuro – Il ritorno di Nolan, l’eccesso di quantità e peso degli spunti messi in campo si traduce in un loro sviluppo non sempre all’altezza. Lo vediamo con evidenza nella rivisitazione della società kryptoniana come totalitarismo dove la nascite sono ferramente controllate e gli individui predeterminati geneticamente in base alle esigenze sociali. Un modello di cui Kal-El diventa l’antitesi (è il primo figlio dopo molto tempo nato per concepimento “naturale”, dunque nel caos delle possibilità e nella libertà della scelta) ma di cui resta pur sempre, almeno in parte, figlio.

Peccato che questo dualismo non sia portato avanti mostrando luci e ombre dell’una e dell’altra parte dentro e fuori l’identità divisa del protagonista (come invece riuscì a Nolan con la dialettica di ordine e caos de Il cavaliere oscuro). E così tutto si appiattisce alla consueta, manichea contrapposizione tra un’idea di libertà individuale fin troppo scopertamente figlia dell’American Dream e la proiezione, senza sfumature e anzi un po’ caricaturale, del “mostro” autoritario che gli si contrapporrebbe.

Gli stessi limiti riguardano altre linee di trama e caratterizzazioni, una su tutte quella di Lois Lane/Amy Adams: un’eroina “snyderiana” (ma anche discendente dell’alter ego fumettistico) nella sua personalità in grado di tenere testa a un mondo prevalentemente e prepotentemente maschile (sia quello militare o dei colleghi giornalisti) e che però, in ossequio al copione cinefumettistico, finisce per replicare il cliché della donna in pericolo salvata al momento giusto dalla figura maschile (la Wonder Woman di Gal Gadot è di là da venire).

Così come non è forse ridicola come qualcuno l’ha accusata di essere, ma comunque cede al peso delle ambizioni, la famigerata sequenza della morte di Jonathan/Costner, comunque poco credibile nell’assunto che la paura per uno scenario negativo futuro possa distogliere il protagonista dal salvare una persona cara di fronte a un pericolo certo.

Illustrazione di Leonardo D’Angeli colorata da Peppe Tropea

La farfalla e la visione

Dove però Man of Steel (con)vince e si rivela davvero ben invecchiato è nell’aspetto visivo, che ne fa se non l’opera più matura di Snyder, di sicuro una delle prime e più compiute in cui il cineasta cammini davvero sulle proprie gambe, senza più il “tutoraggio” di un James Gunn per L’alba dei morti viventi o dello storytelling di Frank Miller (300) e Alan Moore-Dave Gibbons (Watchmen) cui aderire, e superata anche l’esplosione caotica, kitsch, creativamente quasi adolescenziale di Sucker Punch.

Con questo film, insomma, lo Snyder regista diventa adulto, e si vede già dal prologo iniziale su Krypton: dove la quantità di elementi e suggestioni postmoderne condensate in appena venti minuti sono tante che avrebbero potuto bastare per una saga fantascientifica a sé, rielaborando elementi da Moebius, dallo Star Wars dei prequel lucasiano, dalla cripto-sessualità degli Alien di H.R. Giger, dall’immaginario steampunk (cui rimandano le armature), dal Philip K. Dick risciacquato negli adattamenti di Scott e Spielberg e tantissimo altro. Riuscendo a dare comunque, e pur nel (troppo) poco tempo a disposizione, una generale impressione di coerenza, senza rinunciare a un po’ di autocitazionismo (nell’esplosione che investe Lara/Ayelet Zurer e sembra rimandare al sogno “atomico” di Watchmen).

Ma è soprattutto dopo, dalla “discesa” sulla Terra, che Snyder adotta spunti sostanzialmente inediti (anche dopo) in film di questo tipo. Soluzioni come l’uso insistito della macchina a mano e gli zoom, più da semi-documentario che da blockbuster di supereroi, conferiscono al film, in certi momenti, un’atmosfera quasi da realismo magico cinefumettistico. Nel mentre, la composizione delle immagini porta avanti le linee tematiche del lungometraggio su un altro piano (e forse più efficace) rispetto a quello dello script: pensiamo solo al Superman risucchiato e sommerso dai teschi (in cui si potrebbe scorgere un rimando intertestuale al Nayak di Satyajit Ray) che ne materializzano la tentazione di farsi, anziché (o da) messia, complice di un genocidio.

Questa tensione a rapprendere in simboli iconografici concetti forse impossibili da maneggiare altrimenti in modo coerente e convincente per un cinecomic come questo, include naturalmente anche il dettaglio, caro ai fan del regista, della farfalla. Intrappolata nell’inquadratura che rimanda alla difficoltà e al dolore di dispiegarsi dell’identità di Kal-El e poi finalmente libera dopo la resurrezione nella Snyder Cut di Justice League. Dove il cineasta non è riuscito a chiudere tanti cerchi della sua visione. Ma, almeno questo, sì.

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Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.

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