Zendaya (Tashi) in CHALLENGERS di Luca Guadagnino. Metro Goldwyn Mayer Pictures
Zendaya (Tashi) in CHALLENGERS di Luca Guadagnino. Metro Goldwyn Mayer Pictures. Credit: Niko Tavernise / Metro Goldwyn Mayer Pictures © 2023 Metro-Goldwyn-Mayer Pictures Inc. All Rights Reserved.

Lo sport, come tutte le storie che promuovono la morale “vincere superando le avversità”, ha sempre fatto gola al cinema, soprattutto se si parla di sport individuali come il tennis.

Capita poi, invece, di guardare Challengers, ultimo film dell’acclamato Luca Guadagnino, e rendersi conto che questa storia, con le classiche narrazioni agonistiche, non ha nulla a che vedere. E ciò è un bene.

Challengers, la trama

In un continuo giustapporsi di timeline e set, si sviluppa la storia di Patrick Zweig (Josh O’Connor) e del suo migliore amico e compagno di tennis Art Donaldson (Mike Faist), messi nella posizione di dover competere tra di loro non solo nei campionati ma anche per le attenzioni e l’amore dell’ex enfant prodige Tashi Duncan (Zendaya).
Una storia che sa di già sentito, è vero, ma potrà comunque regalare, se non stupore, certamente emozioni.

La sfera umana di Luca Guadagnino

Ed è proprio di emozioni, infatti, che in Challengers (come in tutta la produzione artistica di Guadagnino) si parla: pur portando in scena il classico triangolo amoroso alla Jules et Jim, il regista pone lo sguardo su un ventaglio di emozioni e motivazioni che raramente riescono ad emergere in narrazioni con un unico protagonista, figurarsi in film a tre voci.

Senza elemosinare carità o giudizi, i tennisti di Guadagnino sono egoisti e manipolatori, seducenti e passionali, incastrati in un mondo che li vede “bravi solo a colpire la palla con una racchetta” e che vuole che questo venga prima di ogni cosa, felicità e benessere compresi. Tuttavia, più che rappresentare davvero una critica a un sistema, il campo verde e la pallina gialla sono solo un pretesto, uno scenario, per descrivere la potenza e la fragilità delle relazioni, sia carnali che mentali. Perché se basta una scivolata per cambiare una vita, lo stesso si può dire per un abbraccio.

Un tennis unico nel suo genere

Non è la prima volta che il cinema prova a stringere la mano al tennis: solo pochi anni fa King Richard ha portato Will Smith a un (fatale) premio Oscar per aver interpretato il padre delle sorelle Williams. Qualche anno prima, Borg McEnroe ha tentato di portare in scena la storica rivalità di due dei campioni (e teste calde) più celebri di questo sport. Non si può tralasciare, poi, la Battaglia dei sessi e il suo tentativo di raccontare sul grande schermo una sfida sociale, oltre che sportiva.

Tanti esempi, insomma, che non sono però mai riusciti davvero a diventare qualcosa di più e più rilevante, per lo meno se si guarda al lato “racchetta-pallina”. Challengers, invece, decide di seguire strade autonome rispetto al racconto che solitamente si sviluppa intorno a questo sport: innanzitutto non è un biopic (e in un panorama sovrappopolato da questa tipologia, viene da dire solo GRAZIE) e non pretende di rappresentare niente di vero, ma solo di verosimile.

Mike Faist (Art) e Josh O’Connor (Patrick) in CHALLENGERS di Luca Guadagnino. Photo credit: Niko Tavernise © 2024 Metro-Goldwyn-Mayer Pictures Inc. All Rights Reserved.

Chi è appassionato dei vari US Open, Australia Open e quant’altro probabilmente potrebbe storcere il naso di fronte a un’apparente svalutazione del tema sportivo messo in atto nel film, per poi, però, ricredersi. Tra una colonna sonora già apprezzatissima, incalzante e dinamica (merito del duo magico composto da Trent Reznor e Atticus Ross) e parecchia voglia di giocare con inquadrature e split-screen (questo non sempre riuscitissimo, va detto), Luca Guadagnino riesce a rendere ogni match appassionante e concitato, persino per chi di tennis non ne capisce nulla o sa soltanto che, nella realtà, le partite sono un qualcosa di interminabile e pieno di regole.

L’occhio “guadagniniano”, invece, vuole riflettere nel gioco la stessa partita mentale che ogni protagonista gioca con le controparti. I cambi di ruoli, gli imprevisti, le vittorie che non sono mai abbastanza, in un affannarsi senza fine, in un crescendo di tensione che i veri sportivi sapranno riconoscere e apprezzare.

In breve

“Giocare a tennis è come avere una relazione” dirà a un certo punto Tashi-Zendaya nel cercare di spiegare cosa vuol dire davvero essere parte di questa disciplina, anziché subirla. E sembra proprio, in effetti, che per tutto il film sia questo il vero scopo di ciascuno dei personaggi: riuscire a far vivere questa relazione, una chimera che nessuno di loro sa realmente come raggiungere se non, erroneamente, con trucchetti e impulsività, finendo per subire soltanto gli effetti del gioco senza capire il prezzo da pagare.

Vincere è importante, dunque, è quello che tutti vogliono, ma vincere una partita non assicura la vittoria ai campionati e persino in uno sport solitario come il tennis vincere da soli vuol dire aver perso in partenza.

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Giulia Nino
Classe 1996, cresce basando la sua cultura su tre saldi pilastri: il pop, i Simpson e tutto ciò è accaduto a cavallo tra gli anni ’90 e 2000. Nel frattempo si innamora del cinema, passando dal discuterne sui forum negli anni dell’adolescenza al creare un blog per occupare quanto più spazio possibile con le proprie opinioni. Laureata in Giurisprudenza (non si sa come o perché), risiede a Roma, si interessa di letteratura e moda, produce un podcast in cui parla di amore e, nel frattempo, sogna di vivere in un film di Wes Anderson.