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Ben Platt Dear Evan Hansen (Stephen Chbosky, 2021). Universal Pictures

La cosa peggiore che possa accadere guardando un musical al cinema è non credere alla storia e sentirsi sprofondare in una voragine di disagio ad ogni canzone. È ciò che accade nel film Dear Evan Hansen, adattamento cinematografico dell’omonimo musical diretto da Stephen Chbosky.

Da Broadway alla sala cinematografica

Nulla è credibile nella trasposizione cinematografica della storia dell’adolescente Evan Hansen, a partire dall’età del suo interprete, Ben Platt, che ha 28 anni e recita un ruolo di base poco convincente attraverso una performance fastidiosamente artefatta. I brani musicali si salvano, non tutti purtroppo, ma a rendere il risultato finale ancora più inquietante è la gestione, tra pop e superficialità, di tematiche come il suicidio adolescenziale, la fobia sociale e le dipendenze da farmaci legali da parte dei liceali.

Il musical originale, con musiche e parole di Benj Pasek e Justin Paul (autori dei testi delle canzoni in La La Land) e libretto di Steven Levenson, debuttò prima a Washington nel 2015 e poi l’anno seguente a Broadway. Nel 2017 ha vinto il Tony Award al miglior musical. Ben Platt ha sempre recitato nel ruolo del protagonista, anche sul palco, tranne che nel debutto londinese del 2019.

Il personaggio gli si è attaccato addosso, o è lui che non vuole lasciarlo andare (senza dimenticare che suo padre, Marc Platt, è uno dei produttori del film). Platt è bravissimo, non si può negare, e il suo timbro arriva dritto al cuore. Non ho visto lo spettacolo dal vivo e mi attengo per questo al film. Sebbene i primi piani dell’attore che canta con gli occhi sgranati mettano in ridicolo la finzione mal riuscita, l’aspetto peggiore è dovuto alla pretesa di empatia, insistente in ogni brano ma fondamentalmente assente. Evan è così borderline che l’empatia è l’ultimo sentimento che riesce a suscitare.

Si può mettere in ridicolo il suicidio?

Senza andare troppo oltre direi di no, eppure il limite sottile tra ironia e cattivo gusto tende a distanziare fortemente un’operazione intelligente da una scrittura imbarazzante, e in Dear Evan Hansen non si può fare a meno di chiedersi quale fosse l’obiettivo iniziale.

Partiamo dalla trama: Evan (che come ho già detto dovrebbe avere 17 anni ed è interpretato da un attore adulto) soffre di fobia sociale, sua madre (Julianne Moore) è quasi sempre assente per lavoro, non ha amici ma è innamorato di Zoe, una compagna di scuola con cui neanche parla, la guarda da lontano credendo di non essere abbastanza per lei. Il suo terapeuta, oltre ad imbottirlo di farmaci, lo esorta a scrivere delle mail indirizzandole a se stesso per sfogarsi e capire cosa non funziona nel contatto con l’altro.

Una di queste mail, stampata per errore, finisce nelle mani dell’instabile e violento fratello di Zoe, Connor, che si infuria leggendo il nome di sua sorella. Il ragazzo ruba il foglio ad Evan e ha tutta l’aria di qualcuno che vuole fargli passare la voglia di pensare alla ragazza. Passano i giorni ma Connor non torna a scuola, finché non accade un tragico evento che segnerà il passaggio di Evan da ragazzo solitario e problematico a manipolatore ed opportunista.

La creazione di un mostro (spoiler)

Connor non torna più a scuola perché si è suicidato, Evan viene a saperlo direttamente dai suoi genitori (Amy Adams e Danny Pino), che nella tasca della giacca del figlio trovano la “lettera rubata”. Deducono erroneamente che sia indirizzata a lui, e che fossero amici. Quest’ultimo non confessa di averla scritta di suo pugno. Per bontà d’animo? Inizialmente siamo portati a pensarlo. Non è sicuramente facile dire una cosa del genere a due persone affrante che pensano di aver trovato l’ultima prova di sensibilità del figlio morto conosciuto come un individuo poco amorevole.

La bugia a fin di bene però si trasforma in un vortice che rende Evan finalmente popolare, lo avvicina all’amata Zoe e gli regala una famiglia che ha bisogno di colmare il vuoto. Il giovane con le mani sudate e la voce che trema con cui ci si dovrebbe commuovere scrive false mail per ricostruire un rapporto mai avvenuto. Connor, appena morto, canta e balla in una proiezione mentale di Evan su come poteva essere un possibile scambio tra di loro. Nessuna ironia o insegnamento, il tutto è da brividi.

Non basteranno un paio di brani strappalacrime ad indorare la pillola, ormai è difficile fidarsi del protagonista, e crediamo sempre meno alle sue frustrazioni.

Risalire verso la conclusione (super spoiler)

Evan confesserà tutto, ad un certo punto, specchiandosi nella sofferenza della madre di Connor e rimediando agli effetti sempre più ingestibili della finzione. L’ondata di sincerità arriverà dopo una pantomima perturbante per rivelare che il dolore del ragazzo suicida è il medesimo di Evan. Lui stesso aveva tentato il suicidio senza successo l’estate precedente.

Verso il finale del film il senso che avrebbe dovuto veicolare dal principio si accende: il discorso commovente che diventa virale e la co-fondazione di un progetto di sensibilizzazione per la depressione e il suicidio tra gli adolescenti, sono il modo per Evan di reagire immedesimandosi in chi non ce l’ha fatta. E noi che pensavamo volesse solo fidanzarsi con Zoe.

Qui è manifesto quanto i problemi di Dear Evan Hansen non siano solo nei capelli posticci di Ben Platt o nel confezionamento di un film per i Golden Globes: la scrittura non indirizza lo spettatore dove sarebbe più consono, lo disorienta e non è capace di riprenderlo in tempo.

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Silvia Pezzopane
Ho una passione smodata per i film in grado di cambiare la mia prospettiva, oltre ad una laurea al DAMS e un’intermittente frequentazione dei set in veste di costumista. Mi piace stare nel mezzo perché la teoria non esclude la pratica, e il cinema nella sua interezza merita un’occasione per emozionarci. Per questo credo fermamente che non abbia senso dividersi tra Il Settimo Sigillo e Dirty Dancing: tutto è danza, tutto è movimento. Amo le commedie romantiche anni ’90, il filone Queer, la poetica della cinematografia tedesca negli anni del muro. Sono attratta dalle dinamiche di genere nella narrazione, dal conflitto interiore che diventa scontro per immagini, dalle nuove frontiere scientifiche applicate all'intrattenimento. È fondamentale mostrare, e scriverne, ogni giorno come fosse una battaglia.

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