A oltre cinque anni di distacco dall’ottimo seguito de Her Love Boils Bathwater, al tempo selezionato per concorrere alla novantesima edizione degli Academy Awards in rappresentanza del Giappone, il cineasta nipponico Ryōta Nakano inanella un nuovo piccolo grande film: Foto di Famiglia (Asadake!), una commedia brillante dal flebile sottofondo drammatico.
La storia di Masashi Asada
Attingendo liberamente dalla biografia del fotografo Masashi Asada, il regista ci restituisce un nuovo significativo affresco sul senso delle relazioni umane (e famigliari), e di come l’immagine, nella sua espressività artistica e simbolica, possa tradurne l’essenza.
Ed è appunto Masashi il protagonista del film. Fin dall’infanzia, da quando il padre lo immortalava assieme al fratello in scatti commemorativi per salutare gli anni venturi, coltiva il fervido sogno di diventare un fotografo professionista: un’ambizione che lo porta a formarsi nelle migliori accademie di Tokyo, senza però mai sbarcare il lunario. Tornato a casa, scalcinato, ormai ultraventenne e precario, cercherà man mano di direzionare il suo taglio stilistico, in modo che qualche editore possa finalmente intercettare il suo talento e dar visibilità ai suoi lavori.
Sorpresa vuole che i soggetti dei primi foto-ritratti realizzati da Masashi saranno proprio i componenti della sua famiglia, rivisitando con uno sguardo più disimpegnato e irriverente l’esempio impartitogli dal padre in tenera età. Comporrà delle vere e autentiche messe in scena, in cui ciascuno degli Asada dovrà interpretare un personaggio: dal fingersi aitanti pompieri dalla postura orgogliosa (emulando il sogno mai realizzato del genitore), al vestire i panni della nazionale di calcio giapponese, o di un operoso team di meccanici fermi al pit-stop a una pista automobilistica, fino addirittura all’improvvisarsi un clan di truculenti gangster, simili a quelli dei film tanto amati dalla madre.
Salvare i ricordi
Nonostante la lenta rincorsa, l’impresa di Masashi lancerà un vero e autentico ‘filone’; ben presto i suoi lavori otterranno rinomanza, verranno insigniti di premi e riconoscimenti, dando notorietà anche ai suoi cari. Un’esperienza che, nella sua straordinarietà, non si esaurirà al semplice perimetro del nucleo parentale del fotografo. Masashi percorrerà infatti l’intero Sol Levante, alla ricerca di nuovi volti e famiglie da catturare col suo occhio eclettico. Ma la sua poetica verrà messa a dura prova quando nel 2011, sulle coste di Tōhoku, uno tsunami abbatterà case e infrastrutture, causando un numero incalcolabile di sfollati.
Giunto sul luogo della tragedia, Masashi si brigherà da subito, assieme a un’equipe di volontari, a recuperare alcuni dei beni più inestimabili degli abitanti, unici portatori di memorie ed emozioni: le fotografie. Nel giro di pochi mesi raccoglieranno oltre 60.000 scatti, catalogati nella biblioteca cittadina, accessibile a tutti i rispettivi proprietari intenti a volersi reimpossessare del loro ‘passato’; eventi nefasti che, a dispetto della loro criticità, non sfumeranno il fuoco di Masashi e la sua candida ossessione verso i ‘ritratti di famiglia’, oltre che per i suoi stessi cari.
Ricercare il senso di famiglia
Nel velo ironico che ammanta gran parte del lungometraggio, si rintracciano alcuni dei toni caratteristici della commedia nipponica famigliare; si pensi semplicemente al cinema d’animazione di Isao Takahata (I miei vicini Yamada, in primis), o anche al suggestivo Mirai di Mamoru Hosoda, terza produzione del neofito Studio Chizu. Con un’abilità non certo scontata, Nakano dimostra tuttavia di saper saldamente tenere il timone dell’apparato valoriale del film, rendendo onore a uno dei topos più esplorati dalla tradizione filmica di riferimento: la famiglia (non un semplice leitmotiv, ma una virtù connaturata alla storia e alla cultura giapponese).
In questo senso si potrebbe partire dall’esempio eccelso del Maestro Ozu. Il contributo più vivido e moderno resta tuttavia quello di Hirokazu Kore’eda: dal capolavoro Aruitemo Aruitemo (2006), passando per Father and Son (2013) o Un affare di famiglia (2019), fino a Broker – Le buone stelle (2022): in ciascuna di queste storie ricorrono delle intense riletture sulla percezione della famiglia, nel senso più etimologico del termine (basti riflettere che parole corrispettive come “Uchi” sono traducibili anche come “casa”, “gruppo”, se non addirittura “comunità”). Di qui, l’interrogativo ineludibile di cosa sia famiglia, e cosa no; di quali siano le caratteristiche che demarchino essere una famiglia. Col suo tocco sottile e ravvicinato, Kore’eda ad esempio riconosce questa ‘percezione dell’appartenere’ ai legami, alla scelta di cingere un’unione con chi si ama; una premessa che quindi prescinde dal nostro stesso retaggio biologico, con una sostanzialità più intima, quasi spirituale.
Paradosso vuole che questa stessa tensione trapeli anche nello sguardo del protagonista Masashi nell’opera di Nakano: nel suo strenuo desiderio di cogliere lo spirito di ciascuna delle famiglie da lui immortalate c’è forse la volontà di tastare le loro emozioni, i loro attimi, fino a aderirvi. Elide così il muro del distacco, convenzionalmente attributo all’esercizio del fotografo, fino a riconoscersi in ciascun nucleo, se non gruppo o comunità, carpita dal suo sguardo. Uno sguardo che, nel suo caso, non è da intendersi come la replica pedissequa del reale, ma altera ed estende ‘ciò che è’ in ‘ciò che rappresenta’: in una parola, arte. Quanto basta per smentire alcuni dei detrattori di Masashi, presenti nella pellicola, e il loro mantra immancabile: «D’altronde, sono solo foto di famiglia».
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