Mark Ruffalo interpreta entrambi i poli di un dramma profondo, al contempo personale e sociale. È Thomas, quarantenne affetto da schizofrenia, in continuo conflitto tra la parte “lucida” di sé e quella in balia di allucinazioni e deliri. Ed è Dominick, il gemello che ama Thomas ma odia la sua malattia. Il suo “guardiano” che lotta incessantemente tra il bisogno di fuggire dalle responsabilità e quello di proteggere il fratello a ogni costo.
Due ruoli, al loro interno ambivalenti e complessi. Mark Ruffalo riesce a interpretarli dando a ognuno una personalità riconoscibile nell’immediato. Uno sguardo diverso, una postura diversa, piccoli dettagli che rendono pienamente l’illusione di vedere delle persone differenti, senza alcuna resistenza da parte dello spettatore.
Poco importa che sia uno degli attori più conosciuti della sua generazione: Ruffalo è così convincente da far dimenticare di essere lui da solo, davanti alla telecamera. Come fa anche la sua controparte più “giovane”, Philip Ettinger, nei flashback.
Il rapporto che riesce a creare tra i due fratelli, è straordinariamente intenso e commovente. Forse la ragione più convincente per guardare Un volto due destini.
Un volto due destini – I Know This Much Is True
La miniserie HBO in sei puntate, in Italia disponibile su Sky, è tratta dal romanzo La notte e il giorno, di Wally Lamb. È appunto la storia dei due fratelli, Dominick e Thomas Birdsey, a partire da un giorno particolare, quello in cui Thomas, ascoltando le sue allucinazioni, compie un “sacrificio di carne”, automutilandosi. Da qui viene considerato un soggetto pericoloso e rinchiuso in ospedale psichiatrico. E sempre da qui, inizia al contempo la lotta di Dominick, per dimostrare la mitezza e l’innocuità del fratello. Questa lotta si intreccia, però, con traumi più profondi, seppelliti nel passato, che riaffiorano attraverso ricordi e flashback in grado di completare il ritratto dei fratelli di Birdsey.
È un viaggio intenso all’interno del loro mondo interiore, soprattutto quello di Dominick, che prova finalmente, a quarant’anni, ad ascoltarsi, a capirsi, a conoscersi. Lo fa anche ritrovando le sue origini, attraverso un controverso manoscritto del nonno materno, interpretato da Marcello Fonte.
Fonte (il canaro di Garrone) porta sugli schermi HBO lo stereotipo ripugnante dell’italiano-migrante, violento, ignorante, chiuso e razzista. Tanto che non recita nemmeno in inglese, ma solo in italiano e in dialetto (il suo, di Reggio Calabria, anche se interpreta un catanese). Calibra perfettamente la recitazione vernacolare allo spirito del personaggio e riesce nell’unica cosa che in fondo gli viene chiesta: seminare dubbi e resistenze nello spettatore.
Il grande e interessante lavoro attoriale non riesce tuttavia a risollevare pienamente una serie che per molti aspetti rimane pesante. Pesante nel carico emotivo che rovescia sullo spettatore e che lo costringe a centellinarne la visione, pur essendo un contenuto piuttosto breve e autoconclusivo.
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