Road House, U.I.P. - MGM HOME ENTERTAINMENT, Prime Video
Road House, U.I.P. - MGM HOME ENTERTAINMENT, Prime Video

Ebbe un destino sfortunato, Road House (Il duro del Road House, 1989), il film di Rowdy Herrington che vede protagonista Patrick Swayze, tanto da far candidare il regista al Razzie Award. Ma è veramente solo un film anni ’80 tutto risse e ragazze bionde seminude?

Partendo dal presupposto che ogni film con Swayze andrebbe recuperato, e memore di un dialogo presente nella serie teen Dawson’s Creek in cui l’aspirante regista Dawson elogia il lungometraggio con gli occhi limpidi di chi ha ormai attraversato gli anni ’90, posso affermare che Road House è diventato oggetto di una riscoperta che ne ha evidenziato le potenzialità da cult negli anni seguenti, ed è giusto che sia successo. Il remake appena uscito in streaming con Jake Gyllenhaal ne è la dimostrazione; questo perché sebbene non fosse stato apprezzato alla sua uscita, simboleggia ora un esempio di intrattenimento che merita un’analisi contestualizzata e accurata, Road House si sviluppa sulla base di una struttura classica che però guarda al futuro mettendo in scena sì un eroe, ma improntato su un modello maschile in evoluzione.

Dopo un rewatch accurato ho trovato almeno cinque buoni motivi per cui non dovrebbe essere abbandonato nel dimenticatoio dei filmacci stereotipati, ma conservato nell’Olimpo dei film di mezzo: il luogo dove dimorano le opere a cavallo tra il certo e l’incerto, quelle che corrono il rischio di fallire poiché inclini a sperimentare modelli diversi, e che spesso ne pagano le conseguenze.

1 – Patrick Swayze

La lista di film in cui compare Patrick Swayze non è così breve, eppure leggendola rimane l’amara sensazione che non gli sia mai stato dato il giusto riconoscimento. Ha esordito cinematograficamente nel 1979 con Skatetown, U.S.A., una commedia musicale in cui, giovanissimo, interpretava il pattinatore Ace, nel 1983 diventa per Francis Ford Coppola uno dei fratelli Curtis in The Outsiders (I ragazzi della 56ª strada), nel 1987 è il Johnny Castle di Dirty Dancing (che ha fatto innegabilmente storia), poi arriva Road House.

Passato dalla commedia romantica al dramma generazionale, Swayze è indimenticabile in parecchi ruoli, come quello in Point Break di Kathryn Bigelow (1991) o nell’incredibile performance in To Wong Foo, Thanks for Everything! Julie Newmar (1995) in cui interpreta la drag queen Vida Boheme.

La fase seguente è purtroppo in discesa, la filmografia della seconda metà della sua carriera è costellata da opere che si possono tranquillamente dimenticare, dove ogni tanto emerge una piccola parte che ne risolleva le sorti (come quella in Donnie Darko nel 2001). La sua scomparsa nel 2009 per un tumore è il culmine di una carriera attraversata da dure prove personali, alcolismo, una gestione della rabbia altalenante e problemi fisici che più volte l’hanno costretto a rimettere in discussione il suo lavoro.

La sua apparizione inziale in Road House, vista con gli occhi di oggi, è pura magia: in un locale affollato, tra vestiti a sbuffo di colori improbabile e code di cavallo, il ragazzo con gli occhi sottili venuto dal Texas è lì per raccontarci di un uomo la cui storia non è andata proprio secondo i piani. E il suo James Dalton si conferma come uno di quei ruoli che ci hanno fatto innamorare di lui.

2 – La mascolinità che perde la durezza 80’s

Sebbene Swayze passi da film romantici come Dirty Dancing a rudi prove di mascolinità come in Road House, non perde mai una sensibilità tangibile, che trasmette già occupando lo spazio in cui il regista lo posiziona, e che approfondisce incarnando il personaggio con cura. James Dalton non è il classico buttafuori del Missouri che cerca di marcare il suo territorio mentre gli anni ’80 gli sfuggono di mano, è infatti laureato in filosofia e applica concetti ascetici all’approccio del lavoro nel locale. Non a caso si innamora di una dottoressa, la quale come molti altri sottolinea il fatto che per quello che fa se lo immaginava più grosso (una battuta ricorrente nel film).

Nella fisicità e nella psicologia, Dalton promette al pubblico un cambiamento, un modello maschile che si sta trasformando e che non risponde più alle logiche di forza e prevaricazione. Non che abbia abbandonato totalmente la durezza di una virilità che esibisce la violenza come componente di protezione, anzi, spesso è protagonista di risse e combattimenti anche molto truculenti, però si differenzia dagli uomini che ha intorno per una profondità di cui non si vergogna, e le cicatrici che esibisce sulla pelle sono sicuramente meno vistose di quelle che soffoca dentro di sé. Lo dimostra il rapporto di amicizia con Wade Garrett (Sam Elliott), un altro uomo che ha imparato a mostrare sia muscoli che fragilità.

Road House, U.I.P. – MGM HOME ENTERTAINMENT, Prime Video

3 – Le performance musicali di Jeff Healey

Quando Dalton (Patrick Swayze) si trasferisce per andare a lavorare come capo buttafuori al Double Deuce incontra una vecchia conoscenza, un chitarrista blues cieco che suona con la chitarra appoggiata sulle ginocchia e ogni notte infiamma il locale con la sua band. Quel chitarrista è il canadese Jeff Healey, che con la sua The Jeff Healey Band pubblicò una decina di album a cui si aggiunse una parte di carriera solista. Healey, diventato cieco da piccolissimo, impara a suonare quando ha tre anni e poco dopo si esibisce in pubblico.

Nel film si può ammirare la sua tecnica chitarristica grazie ad una serie di performance all’interno del club, in più lascia intendere che il suo personaggio e quello di Dalton abbiano un trascorso di amicizia fondato su grande lealtà e rispetto.

4 – I combattimenti

Non si possono non menzionare le scene di combattimento in Road House, qui infatti Swayze sfoggia tutta la sua conoscenza delle arti marziali (l’attore oltre alla danza classica aveva praticato anche il Taekwondo), che esibisce sia in allenamenti solitari circondati dal silenzio che in scontri corpo a corpo con sgradevoli gorilloni senza anima.

Paragonabili a vere e proprie coreografie, i combattimenti nel film sono tutt’altro che noiosi (e stiamo parlando soprattutto di risse da bar); le mosse, i calci, i contatti, sebbene siano studiati sulla base del Jujitsu, dell’Hapkido (arte marziale coreana) e di altre tecniche di combattimento, assumono l’imprecisione grezza di botte dure e pure, e conquistano a livello di intrattenimento. Tra qualche calcio volante e qualche coltellata vecchio stile, il protagonista, assieme al suo corpo di ballo, dà prova di avere realmente il controllo dello spazio, ed è strano a dirlo, anche quando spacca le ossa ai suoi avversari è una delizia visiva.

5 – L’epica del bene che vince sul male

L’epica dell’eroe positivo, sebbene vittima di un destino travagliato, si esprime attraverso il conflitto tra il buttafuori Dalton e il mafioso Brad Wesley (Ben Gazzara), e viene sottolineata da una colonna sonora (composta da Michael Kamen) che potrebbe tranquillamente essere quella di un’opera tragica priva di cazzottoni o capelli cotonati. Questo per dire che la raffinatezza delle note che pongono l’accento sui momenti più drammatici del film ne sottolineano anche la ricercatezza.

Soprattutto nel finale, dove dopo tanta efferata violenza Dalton decide di non uccidere il suo avversario, concedendogli la salvezza, la musica è una presenza coinvolgente, imprescindibile, e quello che è lo scenario, di cattivissimo gusto, di una stanza ricca di animali morti esposti come trofei, diventa un teatro tragico dove il protagonista scende a compromessi con il suo io più profondo, quello giusto e riflessivo, che non ha bisogno di uccidere per farsi rispettare.

Se ancora non vi avessi convinto andate su Prime Video, lì il film è disponibile in streaming e potrete ammirarne tutte le potenzialità, intanto per cult e riscoperte continuate a seguire FRAMED per saperne di più. Siamo anche su InstagramFacebook e Telegram!

Silvia Pezzopane
Ho una passione smodata per i film in grado di cambiare la mia prospettiva, oltre ad una laurea al DAMS e un’intermittente frequentazione dei set in veste di costumista. Mi piace stare nel mezzo perché la teoria non esclude la pratica, e il cinema nella sua interezza merita un’occasione per emozionarci. Per questo credo fermamente che non abbia senso dividersi tra Il Settimo Sigillo e Dirty Dancing: tutto è danza, tutto è movimento. Amo le commedie romantiche anni ’90, il filone Queer, la poetica della cinematografia tedesca negli anni del muro. Sono attratta dalle dinamiche di genere nella narrazione, dal conflitto interiore che diventa scontro per immagini, dalle nuove frontiere scientifiche applicate all'intrattenimento. È fondamentale mostrare, e scriverne, ogni giorno come fosse una battaglia.

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