"Un intellettuale in borgata" di Enzo De Camillis. In occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini

Uno scrittore che amava tanto il cinema da eleggerlo a sua nuova lingua poetica, un comunista che cercava di sottrarre spazi “sacri” di esistenza allo scorrere impetuoso della Storia, un borghese che amava l’umanità delle periferie (sociali e geografiche) e vi si calava senza compromessi. Tutte queste vitalissime contraddizioni era Pier Paolo Pasolini, come ci ricorda il documentario Un intellettuale in borgata di Enzo De Camillis, presentato il 2 novembre (anniversario dell’assassinio del poeta all’Idroscalo di Ostia) presso la sede dell’ANICA a Roma.

E quella Roma dove Pasolini si trasferì nel 1950 è co-protagonista a tutti gli effetti di un film che, senza seguire una traiettoria cronologica lineare, concentra buona parte della sua attenzione su due, anzi tre, momenti chiave nella complessa, tormentosa e multiforme esperienza del personaggio. C’è appunto il Pasolini dei primi anni a contatto con la realtà del sottoproletariato romano, che produrrà il primo, scandaloso successo letterario dell’autore, il romanzo Ragazzi di vita. Tra gli ispiratori delle figure narrate nel libro ci sono Umberto Mercatante e Silvio Parrello (oggi pittore). Entrambi rievocano aneddoti personali, tra partite di pallone e bagni nel Tevere, e il secondo ci porta nei luoghi dell’ex borgata che il tempo ha cambiato.

Dalla parte opposta e complementare è rievocato il Pasolini degli ultimissimi anni, polemista “corsaro” che abborda il borghese Corriere della Sera e ne fa il megafono per le sue invettive contro la nuova società neocapitalista e consumista, l’omologazione (e genocidio) culturale, le manovre delittuose del Potere. È la lettura, da parte di Leo Gullotta, del celebre articolo Il romanzo delle stragi (aperto dall’anafora dell’“Io so”) a scandire non casualmente l’intero film di De Camillis. Perché quello di Pasolini è un caso che pone come pochi altri il nodo della «responsabilità della cultura», come sottolinea uno degli intervistati, il compianto Stefano Rodotà.

La ricerca di Pasolini è insieme intima e pubblica, ideologica e passionale, analitica e visionaria. Come sono visionari e a tutt’oggi incandescenti, oltre ogni “buonismo” e “cattivismo” da salotto, oltre ogni retorica e reticenza, oltre ogni calcolo dello stesso “potere nel potere” che è l’opposizione organizzata al sistema, i versi di Profezia, dove si immagina una rivoluzione di migranti del cosiddetto (all’epoca) “Terzo Mondo” sbarcati in Calabria. Ma negli anni in cui quella poesia vede la luce è già il cinema ad aver aperto un nuovo orizzonte all’inquieta espressività pasoliniana.

Ed è l’altro momento chiave su cui si sofferma il doc, il passaggio a quel mezzo filmico definito dal poeta «l’unica arma che non è completamente nelle mani della classe dirigente». A differenza della televisione, denunciata anche dall’interno (nell’intervista con Enzo Biagi) come strutturalmente, oltre che storicamente, antidemocratica. E la conferma, nel presente delle piattaforme digitali, ci arriva indirettamente proprio dalla proiezione del film di De Camillis. Mentre scorrono le parole di Pasolini, qualcuno dietro di noi protesta ad alta voce: «Nun se po’ sentì!». L’intellettuale che cantava la borgata è ancora, proficuamente, urticante. E la sala cinematografica resta il luogo migliore per capirlo.

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Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.

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